RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Folklore

Speciale Natale e Capodanno

Nei fiumi scorre olio e nelle fonti miele la “notte di prodigi” del 24 dicembre

Si dice che la sera della Vigilia di Natale, a mezzanotte in punto, gli alberi spogliati dal gelo mettano fiori e frutti, gli animali parlino, nei fiumi scorra olio e nelle fontane miele. Dicerie e leggende popolari che ben illustrano il carattere 'magico' e misterico da sempre associato alla Notte Santa, "notte di prodigi" in cui, ad esempio, secondo una credenza abruzzese, alla nascita del Bambino gli asini s'inginocchiano e le punte delle corna di mucche e buoi risplendono nel buio. Sempre in questa notte si credeva un tempo che gli animali nei campi e nelle stalle acquistassero appunto il dono della parola e chiacchierassero tra loro: vietatissimo, però, ascoltarli, si sarebbe andati incontro a morte certa.
In molte regioni d'Italia si pensava inoltre che chi fosse nato alla mezzanotte del 24 dicembre avrebbe avuto in sorte un destino straordinariamente felice o altrettanto pessimo; all'acqua attinta alla fontana al preciso scoccare dei dodici rintocchi, serbando il più assoluto silenzio durante l'operazione, si attribuivano virtù benefiche (era detta 'acqua muta' e tra le altre cose assicurava prosperità e ricchezza e scacciava i malefici).
Durante la notte di Natale, notte 'di passaggio' come quella di Capodanno poiché vi si celebra la nascita del nuovo Sole, in molte campagne era anche d'uso trarre auspici sul futuro ponendo sopra la pietra calda del focolare dodici chicchi di grano, uno per ciascun mese dell'anno, e lasciandoli a riposare fino al mattino. Quelli che al calore sbocciavano e si aprivano indicavano abbondanza di messi; al contrario, quelli che si annerivano e bruciacchiavano senza aprirsi volevano dire siccità e fame. Se tutti e dodici i chicchi si annerivano era segno certo di un anno di carestia.
Inoltre, chi voleva conoscere il proprio avvenire non doveva far altro che recitare una preghiera e, postosi a un crocevia, appoggiare a mezzanotte l'orecchio a terra: i rumori che avrebbe sentito gli avrebbero rivelato la sorte (ad esempio, un rombo simile a un rullar di tamburi significava guerra vicina). Infine, esistevano cibi specifici che, mangiati la sera di Natale, avrebbero portato fortuna: le focacce a base di papavero, ad esempio, portavano molto denaro, e mangiare del panpepato, serbandone poi un pezzo in tasca dalla Vigilia alla Candelora, preservava dal mal di schiena.

Il 'giorno del pane'
In occasione del Natale, comunque, detto in passato 'giorno del pane', praticamente ovunque si usa mangiar cibi a base di farina, che a seconda delle zone assumono nomi e aspetto diversi: c'è il pandolce di Genova, con uvetta, cedro candito e pinoli; il ricchissimo panpepato umbro, con miele, noci, mandorle, uva passa, noce moscata, cioccolato; la 'pinza' veneta, con i frutti secchi, che si mangia la notte della Vigilia davanti al focolare, come il panforte di Siena, anch'esso ricchissimo di ingredienti, da gustare la notte del Ceppo; ha un profumo esotico il 'panvisco' barese, di ascendenza turca, in cui il fior di farina si sposa con la densa e aromatica polvere di Cipro e il vincotto d'uva moscata, carruba o fico.
Alcuni storici fanno risalire l'usanza di mangiar cibi a base di farina all'antica Roma. Qui, infatti, il 25 dicembre, come racconta Plinio il Vecchio, in occasione della festa del Natalis Solis Invicti - istituita dall'imperatore Aureliano nel III secolo per celebrare la rinascita del sole dopo il solstizio invernale - si confezionavano appunto delle frittelle sacre di farinata. I cristiani invece ricordano la frase del Cristo ("Io sono il Pane della Vita") e il suo incarnarsi nella notte di Natale a Betlemme, in ebraico "casa del pane", così detta forse perché circondata da campi di grano e destinata dunque a granaio.
Tra parentesi, fu proprio per contrastare il culto pagano del sole, fortemente diffuso a Roma, che la Chiesa decise di celebrare il Natale di Cristo nello stesso giorno del Sole Invitto, con l'intento di sostituire la propria festa a quella pagana, ricca di giochi e cerimonie che attiravano anche i cristiani. Il 25 dicembre è quindi una data convenzionale, che tra l'altro sembra contrastare storicamente con quanto afferma il Vangelo di Luca, secondo cui il Bambino sarebbe venuto al mondo nelle campagne di Betlemme e lì adorato dai pastori che vegliavano di notte guardando le greggi. "Siccome i pastori ebrei partivano per i pascoli all'inizio della primavera tornando in autunno, è evidente che il Cristo nacque tra la fine di marzo e il primo autunno: tant'è vero che fino al principio del IV secolo il Natale veniva festeggiato, secondo i luoghi, o il 28 marzo o il 18 aprile o il 29 maggio" (A. Cattabiani, 'Lunario').
Tutto il periodo legato al solstizio d'inverno era comunque considerato sacro nell'antica Roma e celebrato con le feste dei Saturnali (dal 17 al 24 dicembre), così dette in onore di Saturno, il mitico dio dell'età dell'oro che presiedeva alla 'rinascita' annuale del cosmo profondendo doni. Di qui anche l'uso di scambiarsi regali o 'strenne': il termine risale al latino 'Strenia', dea d'origine sabina apportatrice di fortuna e felicità. In un boschetto sulla via Sacra a lei consacrato i Romani fin dall'antichità usavano coglier ramoscelli e piccoli arbusti da donare ad amici e parenti appunto in questo periodo dell'anno, per buon augurio. Sembra inoltre che alla benefica dea Strenia si possa far risalire la figura della Befana, 'strega' propizia che dispensa, anche lei, doni e fortuna.
Legato al solstizio invernale è poi uno degli arbusti simbolo del Natale, il vischio, che gli antichi Celti usavano raccogliere appunto nella sesta notte dopo il solstizio, detta 'notte madre', e appendere sulla soglia di casa per assicurarsi la felicità. Presso questo popolo il vischio, pianta semiparassita e sempreverde in genere 'ospitata' da querce e meli selvatici, era considerato magico proprio perché non aveva radici, ma cresceva liberamente sugli alberi librandosi a mezz'aria. Lo coglievano i druidi, tagliandolo con un falcetto d'oro.

Il Bambin Gesù dell'Ara Coeli e la 'cena' della Befana: il Natale nella Città Eterna
I bambini romani di un tempo indirizzavano le loro letterine, invece che all'ormai incontrastato Babbo Natale, al Bambin Gesù dell'Ara Coeli: intagliata nel legno di un ulivo dell'orto di Getsemani ed esposta appunto in una cappella della Chiesa, la celebre statuetta è stata sempre oggetto, a Roma, d'una particolare devozione. Al bambinello si attribuiva, tra le altre, la virtù di guarire gli ammalati e persino di resuscitare i morti. In particolare era diffusa in tutti gli strati della popolazione l'usanza di trasportarlo al capezzale di un ammalato di cui si volesse conoscere la sorte: per sapere se si poteva sperare o meno nella guarigione bastava, infatti, osservare il volto del bimbo, le cui guance conservavano il loro colorito roseo se non si trattava di cosa grave, per impallidire sensibilmente qualora, invece, l'ammalato fosse destinato a morire. Per queste visite si utilizzava una carrozza speciale, con tanto di valletto, messa a disposizione del Bambino da uno dei principi Torlonia, Alessandro. Durante i moti del 1848, i repubblicani gli destinarono invece nientemeno che la carrozza di gala del papa, il quale però se la riprese una volta restaurato il potere temporale.
Quanto alle tradizioni a tavola, nella Città Eterna il cenone di Natale è da sempre un pasto di magro, che comprende gli spaghetti con le alici, il capitone arrosto o marinato, i broccoli fritti, e per finire il pangiallo - così detto perché ricoperto da una pastella d'uovo che, cotta in forno, diventa una crosta dorata - o il torrone. Il pranzo del 25 dicembre prevede invece il cappone ripieno e l'uva, i cui grappoli simboleggiano e propiziano abbondanza e prosperità, e a Capodanno non può mancare lo zampone con le lenticchie. Un tempo, la vigilia dell'Epifania i piccoli romani usavano lasciar vicino al focolare un paio di calze e una cenetta a base di carne e frutta per la Befana, la strega benevola che scendeva dalla cappa del camino recando in dono fichi secchi, castagne, arance.

Per la rubrica Folklore - Numero 77 dicembre 2008