Vivavoce - Rivista d'area dei Castelli Romani

RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Antropologia

CULTI LATINI

Antro del fauno

La Civiltà Latina dei Colli Albani, mostra evidenti prove di discendenza dalla Civiltà Appenninica e dalla sua cultura pastorale. Gli Appenninici appartengono a una grande migrazione indoeuropea, avvenuta nella prima metà del II millennio a.e.v., ma raggiungono il massimo apogeo culturale tra la Media e la Tarda Età del Bronzo (1500 - 1000 a.e.v.). Vivono sui territori della fascia appenninica, all'inizio dell'autunno abbandonano le alture per recarsi nei pressi delle coste marine, dove trovano il sale, elemento prezioso per la produzione e la conservazione dei prodotti caseari. A Civitavecchia e a Ostia sono stati rinvenuti frammenti di ceramica appenninica, con la tipica decorazione a fasce rettilinee, spirali e meandri, a testimonianza dei movimenti legati alla transumanza. Con l'insediamento nei territori del Latium Vetus questi guerrieri pastori adotteranno una economia mista affiancando l'agricoltura all'allevamento.
Da questo momento si assiste alla nascita e allo sviluppo della Civiltà Latina, costituita da numerosi nuclei capannicoli, indipendenti l'uno dall'altro, legati però dalla comune origine, dalla stessa cultura e dal culto federale di Juppiter Latiaris sul Mons Albanus, l'attuale Monte Cavo. La probabile origine dei villaggi latini è sicuramente dovuta ad un istituto sacro di arcaica memoria: il Ver Sacrum, la "primavera sacra".
Questo rito consisteva nella consacrazione agli dèi di tutti gli esseri che sarebbero nati nella primavera successiva, i consacrati, raggiunta la maggiore età, lasciavano il clan di origine per fondare una nuova comunità. Alla ovvia valenza pratica del Ver Sacrum, l'eccessivo numero di abitanti in un villaggio, sarebbe stato insostenibile per la produzione alimentare basata su una disponibilità limitata, si può sommare la ripetizione di una usanza che ripeteva la migrazione degli indoeuropei dalla loro sede originaria.
Lo stesso mito di fondazione di Alba Longa contiene tutte le caratteristiche dei Veria Sacra, la sovrappopolazione di Lavinium, la partenza di Ascanio e degli altri giovani, la fondazione di una nuova città.
All'interno della Lega latina Alba Longa costituirà la comunità guida dell'intero Nomen Latinum, la federazione che univa tutti i popoli latini dei Colli Albani. Questi popoli dedicavano riti e offerte a divinità che saranno poi oggetto di culto anche per i Romani. Tra queste divinità la preminenza era riservata a Juppiter Latiaris. Il culto del Giove Laziale era l'atto che sacralizzava l'unione delle comunità pastorali latine, i Triginta Populi Albenses. Il rito annuale, che si teneva sul Monte Albano, consisteva nel sacrificare al Padre degli Dèi (dall'indoeuropeo DYAUS PITAR), un toro bianco e, in epoca arcaica, nell'offerta di libagioni a base di latte e cacio.
Riportiamo la testimonianza di Tito Livio nella sua storia di Roma (ab Urbe condita libri): "Fu annunziato al re e ai suoi senatori che sul monte Albano erano piovute pietre. E poiché a stento si poteva credere a una cosa simile, inviati alcuni ad osservare quel prodigio, in loro presenza, non altrimenti che quando i venti rovesciano sulla terra una fitta grandine, caddero frequenti dal cielo le pietre. Sembrò loro inoltre di udire una voce possente dal bosco sacro sulla sommità della vetta, che ammoniva gli Albani di celebrare secondo il patrio rito quelle cerimonie sacre che essi, come se avessero abbandonato insieme con la patria anche gli dèi, avevano posto in oblio, o adottando il cerimoniale romano o, sdegnati, come avviene con la sorte avversa, trascurando del tutto il culto degli dèi. Anche i Romani, in seguito a tale prodigio, istituirono ufficialmente una festa novendiale".
Quindi la Gens Albenses, entrata a far parte della Civitas di Roma, continuò a celebrare, secondo il rito patrio, le cerimonie in onore di Juppiter Latiaris, così come gli stessi Romani ne celebrarono uno loro.
Certo è che in epoca arcaica, il Monte Albano, visibile da ogni angolo della pianura laziale, doveva essere stato considerato come sede naturale del Dio Sommo del Pantheon latino. Secondo Florio Lucio Annio Ascanio, figlio di Enea e fondatore di Alba Longa, avrebbe convocato i rappresentanti delle comunità dei Prisci Latini per compiere riti propiziatori in onore di Juppiter Tonans. In effetti fu proprio Alba a sopraintendere all'organizzazione del cerimoniale annuale che si teneva sul monte sacro a Giove, privilegio detenuto anche in campo politico-militare, come città guida della federazione che costituiva il Nomen Latinum, vale a dire la Nazione Latina.
Per quanto riguarda le testimonianze archeologiche del culto di Giove Laziale, tutti gli scavi effettuati sulla vetta del monte, testimoniano la presenza di una costruzione in opera quadrata, ma l'edificio doveva essere costituito da un semplice recinto sacro e non da un tempio vero e proprio, con molta probabilità il rito era officiato a cielo aperto. Interessante è la testimonianza, che risale al XVII secolo, del ritrovamento di numerosi oggetti votivi che raffiguravano Giove Tonante e il resto di un piede di grandi misure, forse appartenuto ad un simulacro del dio di notevoli dimensioni. Un'altro elemento di notevole importanza per l'esecuzione del rito è l'esistenza della Via Sacra. La via veniva percorsa dagli officianti che si recavano alla vetta del Monte Albano. Il Lugli riuscì a ricostruire l'intero percorso, che aveva inizio ad Ariccia, sull'antica Via Appia. Lo studioso mise in rilievo che il tracciato della Via Sacra, passando vicino ad alcuni villaggi e attraversando altre strade che portavano ad altri villaggi, era in grado di unire l'intero Nomen Latinum. Il Lugli ha anche obiettato sulla validità del nome di Via Sacra o Trionfale, secondo il suo parere il nome di Via Albana sarebbe stato quello esatto. Sono tuttora visibili tratti della via, con un buon grado di conservazione, soprattutto nei pressi della vetta di Monte Cavo.
Originale e poco conosciuto era il culto dedicato al dio Fauno, una delle divinità più antiche e selvagge onorate dai Prisci Latini. Se da Albano Laziale ci dirigiamo verso Pomezia, percorrendo la Via del Mare, poco dopo l'incrocio con l'Ardeatina, prima di giungere alla Solforata, un cantiere per l'estrazione dello zolfo, è possibile visitare, sulla destra della strada provinciale, il misterioso Antro di Fauno. Si tratta di una cavità poco profonda che si apre al fianco di un innalzamento naturale del terreno erboso. E' sito all'interno di un terreno agricolo privato e proprio per questo si è salvato dalla possibile distruzione per l'utilizzo della cava di zolfo. Purtroppo il laghetto che un tempo si formava ai piedi dell'Antro, a causa della fuoriuscita dell'acqua sgorgante da una fonte interna alla sacra spelonca, ora è del tutto scomparso. Ciò è dovuto alla presenza di un masso che impedisce la naturale uscita di quella che Virgilio chiamava Opaca Fons. Comunque all'interno dell'Antro sgorga ancora l'acqua solfurea che emana, oramai molto attenuati, vapori acri e purificatori. Nell'antichità la fonte sacra era conosciuta con il nome di Albunea.
L'Antro, sacro a Fauno era meta di un arcaico quanto particolare culto legato a un sistema di divinazione praticato dai Latini. Si trattava di una pratica divinatoria «estatica» o «per incubazione», Servio scrive «per stuporem». Sulle procedure per ottenere l'oracolo da Fauno, ci informa Virgilio nel libro VII dell'Eneide. Il Sacerdote, ricevute le offerte, si recava di notte presso la Sacra fonte, giunto sul luogo si distendeva sulle pelli di agnelle precedentemente immolate e invocava il sonno. Durante il riposo inizia a vedere innumerevoli ombre (simulacra) e ode varie voci. Quindi intraprende il colloquio con gli déi e parla con le anime dell'Acheronte negli abissi dell'Averno, l'oracolo era dato. Nella tradizione italica, il dio caprino era considerato un re-pastore primordiale, una divinità carica di energia selvaggia, ma soprattutto un dio oracolare. Nel mondo Romano, Fauno viene associato a Pan Lykaios, anch'esso dio oracolare. Inoltre i Romani lo onoravano con il culto dei Lupercalia. Un'altra manifestazione di questa forza arcaica, appartenente alla dimensione pastorale, era ricordata a Roma con la celebrazione della festa dei Parilia, in una data di fondamentale importanza per l'Urbe stessa, il 21 Aprile.
Il culto della Juno Sispita di Lanuvium fu sicuramente uno dei più importanti nella antica tradizione religiosa latina. I resti del Tempio sono situati sul Colle S. Lorenzo,è del tipo italico ad alae con pronao a tetrastilo. Le fondamenta, tuttora visibili, sono in opera quadrata. Il Tempio ha attraversato almeno tre fasi edilizie: la prima, arcaica, precedente alla fine del 500 a.e.v.; la seconda durante il periodo medio-repubblicano (inizi III sec. a.e.v., dopo il 338 a.e.v.); l'ultima forse durante la metà del I sec. a.e.v.
Il Santuario, di cui rimangono i lunghi porticati, è costruito in opera reticolata con ammorsature in blocchetti e presenta delle semicolonne in ordine tuscanico. Sul fondo del porticato, dove avveniva la processione, è tuttora visibile la fessura del serpente sacro.
La dea lanuvina è quasi sempre raffigurata con il copricapo in pelle di capra, la lancia, lo scudo pelta (a forma di 8) di tipo miceneo e in compagnia del serpente.
L'importanza del culto della Juno Sispita è testimoniato dal fatto che i Romani, dopo la vittoria contro i Latini presso il fiume Astura (338 a.C.), non solo lasciarono una forma di autonomia politica a Lanuvium, ma chiesero la gestione in comune del culto della dea. Infatti al rito annuale offerto dai Lanuvini alla Giunone Sispita, se ne affiancò un'altro romano, officiato dai Consoli prima di partire per le campagne militari allo scopo di ottenere l'aiuto della Dea, per lo stesso scopo i milites le offrivano libagioni di vino e acqua.
Tornando all'aspetto più arcaico il rito dedicato alla dea lanuvina veniva celebrato all'inizio della primavera. Era previsto il sacrificio di una capra per la Juno Sispita, mentre al serpente venivano offerte focacce di farro e grano. I sacerdoti e i cives indossavano pelli di capra e partivano in processione preceduti dalle giovani vergini che recavano le offerte rituali. Il rifiuto delle focacce da parte del serpente significava la mancata consegna di purezza da parte di una delle fanciulle, in questo caso il giusto rapporto con il sacro poteva essere ristabilito solo con il sacrificio della rea.
Alcuni studiosi (es. il Galieti) colgono nella presenza del serpente una funzione prettamente agraria del culto lanuvino. Ci sembra, invece, che la valenza pastorale sia l'aspetto più evidente della Juno Sispita. La pelle di capra, la lancia e lo scudo sono i simboli del guerriero-pastore Latino.
Eliano dice che il serpente è PNEUMA THEION, spirito della dea. Infatti nella tradizione arcaica il serpente ha doppia valenza, una ctonia, l'altra metafisica come gènio della terra.

Per la rubrica Antropologia - Numero 71 maggio 2008