RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

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Milano calibro 9

Uscito dal carcere milanese di San Vittore, dopo tre anni scontati per rapina, Ugo Piazza (Gastone Moschin) è sospettato dall’Americano (Lionel Stander) di aver rubato una grossa somma di denaro. Piazza nega d’aver rubato quei soldi e, non avendo prove della sua colpevolezza, il boss lo obbliga a rientrare nella banda, mettendogli alle costole il fidato braccio destro Rocco Musco (Mario Adorf). Anche un commissario di polizia tiene sott’occhio Piazza, che nel frattempo riallaccia la relazione con la sua ex (Barbara Bouchet), sensuale ballerina di night club…
Ispirato ai romanzi di Giorgio Scerbanenco, uno dei più apprezzati maestri della letteratura gialla e poliziesca made in Italy, è considerato tra i capostipiti del “poliziesco all’italiana” ed è certamente uno dei risultati più maturi di Fernando Di Leo, talentuoso quanto discontinuo regista, osannato in Francia e negli Stati Uniti (suoi grandi fan sono, tra gli altri, registi del calibro di Tarantino, Demme, Burton, De Palma) e solo recentemente riscoperto anche in Italia. Definito proprio da Tarantino «il più grande noir italiano di tutti i tempi», Milano calibro 9 è il primo capitolo della cosiddetta “trilogia del milieu” (gli altri sono La mala ordina e Il boss) nel corso della quale il regista pugliese analizza il mondo della malavita e il sottobosco della criminalità organizzata, servendosi del cinema di genere (e delle pagine di Scerbanenco) per un affresco ricco di intuizioni profetiche sull’universo delinquenziale e sull’Italia della cronaca nera di quegli anni. Al contrario dei tanti “poliziotteschi” che verranno, generalmente sommari nelle descrizioni psicologiche e decisamente inverosimili nell’intreccio, Di Leo si sforza di rendere credibili le vicende e soprattutto le azioni e i comportamenti dei suoi personaggi, non rinunciando ad una trama avvincente ricca di colpi di scena, a complesse scene d’azione e ai ritmi serratissimi che lo hanno reso celebre oltreoceano. E anche se la vena politica e gli spunti di denuncia sociale non sempre vanno a segno e possono sembrare oggi alquanto anacronistici (si pensi allo scontro dei due commissari, il reazionario Wolff e il progressista Pistilli), il film dimostra ancora una insospettabile vitalità e una strepitosa tenuta spettacolare (basti ricordare la straordinaria sequenza iniziale, cifra di un film dove le apparenze non sono mai quelle che sembrano, e il finale, originariamente ancora più drammatico, che la censura impose di tagliare). Si resta colpiti dall’originalità della scrittura registica che, supportata dall’eccellente colonna sonora di Luis Bacalov, mescola sapientemente violenza e tenerezza, ma soprattutto dall’inquietante galleria di loschi figuri messa in scena da Di Leo, abilissimo nel trovare le facce giuste per i suoi personaggi: dal freddo e calcolatore Ugo Piazza, al sanguigno e brutale Rocco Musco, alla bellissima e infida Nelly, all’enigmatico Chino (Philippe Leroy), killer solitario e imperscrutabile, alle tante figure di contorno, ognuna colta in una movenza o in un vezzo che ne suggerisce comportamenti e caratteri. Per non parlare della città, una Milano mai così tetra e agghiacciante, che da sfondo diventa protagonista assoluta. Pessimista e radicale, come nelle migliori pellicole di Di Leo, Milano calibro 9 è percorso da un disincanto assoluto: le forze dell’ordine fanno una pessima figura ma, soprattutto, non ci sono eroi e personaggi positivi. Tutti sono vittime del caso, consumati dall’avidità e dalla bramosia, come mostra mirabilmente l’ultima immagine del film. Da non perdere gli extra del secondo DVD con i documentari Fernando di Leo, la morale del genere e Scerbanenco noir e le interviste esclusive a Di Leo e Moschin.

“Italia Calibro 9”, regia di Fernando Di Leo, con Gastone Moschin, Mario Adorf, Barbara Bouchet, Philippe Leroy, Italia, 1972

Per la rubrica Mediateca - Numero 55 settembre 2006