Vivavoce - Rivista d'area dei Castelli Romani

RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Primo piano

La Mia Generazione

"Sotto il vestito... niente?"

Finito il 2001 e i festeggiamenti obbligati di Capodanno, pensando agli inevitabili bilanci sugli anni trascorsi, e notando, oggi, un riavvicinamento ai problemi sociali da parte di molti giovani, che sollevano la propria voce di protesta nelle scuole innanzitutto, e partecipando a movimenti come quello dei no-global, ripercorrevo le tappe della mia generazione, gli anni in cui il sociale sembrava appannato da una preponderante attenzione all'individuale. Conversando poi con una mia amica di infanzia, in procinto di sposarsi, che dichiarava di sentirsi comunque insoddisfatta, e condividendo io ed altre due coetanee il medesimo stato d'animo, ci interrogavamo se fosse malessere universale o tratto distintivo della nostra generazione.
"E' strano" dicevamo "in effetti non c'è mancato niente". E' vero, non ci siamo dovute rassegnare, come le nostre nonne, ad un padre padrone o ad un marito infedele che però ci sosteneva economicamente; non abbiamo dovuto lottare, come le nostre madri, per le pari opportunità, né faticare il doppio di un uomo per dimostrare di essere brave quanto lui. Siamo nate e cresciute nell'epoca del benessere, quando la guerra era lontana, e non ci saremmo sporcate le mani. "Non temere" mi dicevano "gli uomini sbagliano, ma la storia insegna". "Esprimi le tue idee" mi dicevano "Sii onesta: le ingiustizie verranno smascherate". Vivevamo in un mondo di certezze, anche economiche. Erano gli anni del consumismo, del rampantismo, della "Milano da bere" che dava l'idea di una società efficiente, frenetica, ricca. Siamo state svezzate coi Plasmon, i primi passi con le Kicker's, sostituite presto dalle Timberland sotto ai Levi's 501. Tutto appariva facile, possibile: per una famiglia che lavorava la casa, la vacanza o il capo firmato non erano un miraggio. Anche musicalmente, dopo le contestazioni dei gruppi rock e il nichilismo dei punk, trionfava il pop con curatissimi videoclip: cioè il mercato e l'immagine.
Ai tempi del liceo non avemmo bisogno di occupare le scuole; all'università non esisteva più la distanza fra baroni ed umili matricole: con i professori si discuteva di letteratura, se essa fosse specchio o anticipazione della realtà, o se fosse una realtà altra, sciolta dalla società. Il parere più comune era che l'arte avesse una propria essenza, e che come tale dovesse elevarsi al di sopra degli scontri politici, dei fatti sociali. L'arte come denuncia o come veicolo di messaggi sembrava un'idea sperimentata, sì, ma ormai superata. Nella nostra storia di studentesse il potere della parola non era quello di scuotere gli animi o di persuadere, ma quello di incantare e di sollevare lo spirito dalle miserie umane.
Sì, non ci è mancato nulla, ma proprio per aver avuto tutto ci sentiamo in dovere di restituire altrettanto ma, senza aver fatto i conti con un perfettibile che non sarà mai perfetto, con una sfasatura fra aspirazioni e realtà che inevitabilmente provoca frustrazione, insoddisfazione. Così, contrarie all'omologazione delle teste e alla mercificazione dei corpi, siamo comunque intrappolate nel modello di donna che i mass-media ci impongono, e se ci vogliono magre e senza età noi lo siamo, magari più consapevoli dei rischi cui andiamo incontro saltando i pasti o ricorrendo alla chirurgia estetica. E se ci vogliono colte, ma anche disinibite noi lo siamo: abbastanza acculturate da non confondere Michael con Joan Collins, abbastanza consce dei nostri desideri, dopo che le riviste femminili ci hanno sciorinato 1.000 tecniche tantriche su come, dove e con chi farlo meglio.
Oggi, di fronte a questo mondo che non ci piace, a scelte politiche che non sempre ci rappresentano, è triste ammettere che noi, generazione di quasi trentenni, siamo il prodotto più genuino del consumismo e del capitalismo. Ci credevamo ricche, potenti, protette. Abbiamo avuto la possibilità di provare tutto, di sentirci ovatta nel grande mondo virtuale, ed ora le nostre certezze vacillano: la nostra cara società dell'immagine ci ha venduto l'immagine di cosa? Di un'illusione, cioè di niente. Ci ha cresciute forti e convinte che per noi sarebbe stato un mondo migliore, che le guerre sarebbero finite; che l'uomo avrebbe messo a frutto la propria intelligenza, e l'avrebbe spesa sempre meglio. Non ci hanno detto a scapito di chi e di cosa ci stavamo godendo il nostro benessere, a quale prezzo lo stessimo pagando, tradendo altri uomini, ambiente, ideali...e che alla base di ogni guerra esiste una forte ingiustizia sociale. Figlia e vittima di certi anni della storia del nostro Paese, dove l'individuo vale solo se appare, e dove il denaro impera, non mi riconosco più in queste pagine della nostra storia. Sono solidale con i no-global, gli ambientalisti e i movimenti per la pace, con quanti hanno qualcosa da dire contro questo stato di cose, con chiunque dimostri che se l'immagine è di come ci vogliono, il resto è di come vogliamo noi. O almeno, di come vorremmo che fosse.

Per la rubrica Primo piano - Numero 6 febbraio 2002