RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Cinema

Fellini e i Castelli Romani - Toby Dammit (1968)

Dopo un periodo di inattività, legato a varie disavventure sia lavorative che di salute, Fellini riceve l’offerta di realizzare un episodio per il film collettivo Tre passi nel delirio, tratto dai racconti di Edgar Allan Poe (la pellicola comprende altri due episodi diretti da Louis Malle e Roger Vadim). Il regista incarica immediatamente una sua collaboratrice, Liliana Betti, di leggere e riassumere tutti i racconti dello scrittore americano. Non riesce tuttavia a decidersi su quale storia scegliere, quando il caso gli viene in soccorso. Durante una delle frequenti scorribande notturne in macchina, questa volta in compagnia dello scrittore Bernardino Zapponi, un nuovo amico che diventerà lo sceneggiatore di molti dei suoi film, Fellini si imbatte nel ponte di Ariccia, crollato pochi mesi prima per cause imprecisate (tra il gennaio e l’agosto del 1967 due piloni del ponte erano franati). Le impressionanti rovine in fondo alla valle, le grandi arcate che sprofondano nell’oscurità della notte, i boschi della vallata immersi nelle tenebre, suggestionano profondamente il regista che mette subito in relazione il fatto con un racconto di cui gli ha parlato la Betti, Non scommetter la testa col diavolo, convincendosi che l’ambientazione castellana può, ancora una volta, essere perfetta per il suo film. Stravolgendo completamente il testo originale (del racconto di Poe non rimane che il nome del protagonista Toby Dammit, la “scommessa con il diavolo” e il ponte), Fellini ambienta la storia al presente: divo inglese, drogato e alcolizzato, arriva a Roma per girare un film. Dopo essersi sottoposto controvoglia alla rituale intervista televisiva e preso parte ad una cerimonia di premiazione, fugge ubriaco nella notte a bordo di una Ferrari...
Tutta la sequenza della fuga notturna è girata tra Marino e Castel Gandolfo. Avvalendosi della prodigiosa fotografia di Peppino Rotunno, abilissimo nello sfruttare anche i potenti fari della Ferrari, Fellini trasfigura in chiave allucinata e deformante la tipica iconografia dei Castelli Romani, trasformando il tranquillo e pacioso territorio castellano in un labirinto kafkiano e angosciante in cui il protagonista si muove come in un incubo. Le fraschette, i ristoranti e le trattorie della zona, con le caratteristiche sagome dei cuochi dipinti sull’uscio, diventano minacciose e spettrali presenze, contribuendo ad accrescere il senso di inquietudine e agitazione del protagonista: Toby Dammit sfreccia indiavolato con la Ferrari sulla via dei Laghi ed entra a Marino dove, illuminati dai fari del bolide, si scorgono Largo Colonna e Piazza San Barnaba con i particolari della Cattedrale e la Fontana del Tritone. Imboccato Corso Trieste, esce dal paese e, passando da via Ferentum, si dirige verso Castel Gandolfo. Supera Villa Svizzera e passa davanti al ristorante “La Gardenia”, per poi ritornare improvvisamente verso Marino. Mentre l’auto corre in salita, si riconoscono chiaramente via Cesare Battisti, il “curvone” che riporta in Piazza Matteotti, Corso Vittoria Colonna, illuminato a festa, e le scalette della Chiesa della S.S. Trinità. Torna quindi nuovamente indietro per rientrare in Piazza Matteotti e perdersi nei vicoli attigui del centro storico. Riprende infine la folle corsa nella notte.
Così come era accaduto con Broderick Crawford per il film Il bidone, anche il protagonista di Toby Dammit, Terrence Stamp, era simile al personaggio genio e sregolatezza che interpretava. Malgrado fosse costantemente ubriaco, l’attore inglese si ostinava a guidare la Ferrari anche fuori dal set e Fellini ricorda che una sera, proprio mentre provava la macchina a Marino, per poco non fece una strage.
Per motivi di sicurezza non fu possibile utilizzare il vero ponte di Ariccia per la scena madre del film, la sequenza finale del ponte crollato, dove sarebbe passata in volo l’auto del protagonista (la scena fu quindi ricostruita in teatro di posa).
Il risultato finale accontenta tutti. Le critiche sono buone, i produttori soddisfatti e anche il regista è contento di aver fatto un’opera così diversa dalle sue precedenti, un film che gli sembra «come una palletta di velluto da stringere in mano».
Per la rubrica Cinema - Numero 60 marzo 2007