RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Folklore

“O lopetto” di Ariccia

Che sia totem, antenato mitico, mostro, agente o spirito disincarnato dello stregone, l’animale ed il vegetale sono (o sarebbe meglio dire, erano) presenti con forza nella dimensione quotidiana delle culture tradizionali agropastorali dei Castelli Romani. La visione che si offre agli occhi ed alla riflessione dello studioso che si avvicina a questi patrimoni culturali arcaici è quella di un’estrema permeabilità dei corpi animali, vegetali ed umani. Le proprietà (di volta in volta curative o venefiche) delle piante e degli animali entrano nel corpo umano per ingestione, audizione, inalazione. Il corpo umano si veste della pelle dell’animale e della scorza della pianta tanto per ripararsi che per mutare. Gli umori corporali, i fluidi e le essenze si scambiano, dando vita ad una serie potenzialmente infinita di tradizioni, aneddoti, storie, racconti e saghe, miti originari delle culture indoeuropee e proto indoeuropee che ritroviamo, con diversi accenti, in tutte le tradizioni d’Europa, compresa le culture agropastoriali dei Castelli Romani.
Sigfrido si bagna nel sangue del drago Fafnir; il bardo Taliesyn è un salmone; alla violenza maschile mille ninfe si sottraggono mettendo radice; il calderone delle streghe è un utero fecondo di piante ed animali, dal quale può sortire veleno e medicina, balsamo e fattura. La potenza femminile, Potnia Therion “Signora delle Bestie” partorisce l’idea stessa dell’ibridazione tra umano, animale e vegetale: gargolla, drago, serpente alato, unicorno, pegaso, grifone, ippogrifo, mandragola, epistige, erba degli impiccati, cinocefalo, lupo mannaro, arpia: il ventre della terra partorisce senza riposo, in una gioiosa e terribile genesi mai lineare e mai data una volta per tutte, tutte le relazioni e le ibridazioni possibili (anzi, immaginabili) tra umano, animale e vegetale. E per ognuna di esse l’uomo racconta e tramanda una storia, un ammonimento, una favola, un sogno.
Ad Ariccia è presente l’ultima sopravvivenza del mito indoeuropeo del lupo mannaro, o lopetto, come viene ancora chiamato dai vecchi ariccini.
Il lupo mannaro è una delle figure mitiche più “potenti” nelle culture tradizionali europee, presente, in diverse versioni, nelle culture continentali e mediterranee. Nel mondo germanico è il werwulf, il “lupo che cambia”. La radice wer, la stessa del latino vertere (cfr. latino versipellis, “lupo mannaro”), indica cambiamento, mutazione. In senso proprio suggerisce l’atto del “rivoltare”, l’idea che il lupo mannaro sia un uomo che, rivoltando la propria pelle, acquista le fattezze della bestia, e viceversa. A queste creature. In determinati periodi dell’anno, alcuni uomini e donne, benedetti dalla Madre Terra ed al tempo stesso da essa gravati di una grande responsabilità, si recavano su mitici campi di battaglia per combattere una guerra senza tregua con le forze del caos e della desolazione, sia per difendere gli alberi, i boschi e i fiumi che i campi, i raccolti ed il gregge dell’uomo. In questo modo l’uomo non solo riconosceva al lupo una funzione propriamente salvifica dell’ordine sociale, ma al tempo stesso esercitava (su esso e mediante esso) una funzione apotropaica, poiché, identificandosi col lupo, in qualche misura ne scongiurava la sua forza irrelata, caotica, bestiale, potenzialmente dannosa per il gregge. Ed è estremamente significativo che tale complesso mitico/culturale si esprimesse attraverso l’identificazione tra uomo e animale. Non l’uomo che signoreggia il lupo e, in ultima istanza, lo uccide, ma l’uomo che si fa lupo, per acquisire così potenza animale e difendere il proprio corpo sociale, offrendo, in tal guisa, anche una rappresentazione della contiguità tra corpo individuale e corpo sociale. Nella cultura materiale dell’uomo tale rapporto ambivalente è sintetizzato in uno strumento musicale arcaico, la zampogna (strumento presente nel passato della storia musicale popolare dei Castelli Romani). La zampogna, con pelle di gregge e chanter di legno scolpito in foggia di testa di lupo, è un esempio brillante, per certi versi commovente, di questa mirabile capacità di sintesi simbolica e iconica propria delle culture orali. Corpo di capra e testa di lupo, la zampogna, in numerose leggende popolari di tutta Europa ed anche dell’area mediorientale ha una voce che, di volta in volta, doma il gregge, rende gregge mansueto il branco di lupi (come nelle leggende francesi dei meneurs des loups, i “pastori di lupi”), mette in fuga il branco, atterrisce l’avversario umano con la sua voce di uomo e bestia.
O lopetto ariccino è oramai poco più che un fantasma culturale. Le sue sempre più sporadiche apparizioni riguardano oramai pochi vecchi ariccini, che ancora lo sentono graffiare la notte alle porte delle cantine. In linea col mito indoeuropeo anche o lopetto ariccino nasce con la camicia. Si ritiene, cioè, che i bambini nati con la camicia, vale a dire con brandelli di placenta ancora attaccati al corpo a mo’ di camicia, siano destinati a mutare in lupi in determinate notti dell’anno, in particolar modo la notte della Vigilia della festa di Santa Apollonia, matrona di Ariccia, sotto le cui spoglie di santa si ravvisa un antico culto della Dea Madre, il 9 di febbraio. L’ultimo lupo mannaro ariccino, pubblicamente riconosciuto come tale, era un tale Armando o lopetto, per l’appunto, il cui cognome non sembra essere stato tramandato (anche se alcune memorie di vecchi ariccini fanno credere che si trattasse di un membro del ramo dei Mollica di Ariccia), vissuto nei primi del ‘900 ad Ariccia che, nelle notti d’inverno, in preda a spasmi brucianti, che gli ariccini di allora credevano essere i sintomi della trasformazione in atto, si tuffava nudo nelle fontane di Piazza de’ Corte, nel tentativo di trovare sollievo ai suoi dolori. L’ultima testimonianza certa circa la presenza de o lopetto ad Ariccia, risale al 2005, quando una anziana signora ariccina, attardatasi a notte fonda nella sua cantina per finire di capare (pulire) la cicoria selvatica raccolta nei campi di Vallericcia, l’ha sentito distintamente graffiare al portone di legno sino all’alba.
Per la rubrica Folklore - Numero 61 aprile 2007