RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Biblioteca di Trimalcione

L’accabadora di Soreni

“L’ultima. Io sono stata l’ultima madre che alcuni hanno visto”

Con il romanzo "Accabadora" (Einaudi 2009), vincitore del Premio Campiello Letteratura 2010, Michela Murgia consegna ai suoi lettori il ritratto di una Sardegna inconsueta, rivelata attraverso un percorso narrativo ad alto impatto emozionale. Ambientato nell'immaginario paese di Soreni, il testo racconta con stile misurato ed elegante uno spaccato della società sarda degli anni Cinquanta, realtà condizionata fortemente dalle consuetudini e dalle regole dettate dalla comunità di appartenenza. Lo sa bene Maria, quarta figlia di Anna Teresa e Sisinnio Listru, da sempre considerata "l'errore dopo tre cose giuste", che all'età di sei anni incontra e accoglie il suo destino. La sorte a lei riservata ha il nome della donna dalla lunga gonna scura, Tzia Bonaria Urrai, che in un'assolata giornata di luglio, mentre sta giocando nel cortile di casa, la preleva e la porta via con sé. E' un atto necessario per la sopravvivenza dei suoi famigliari, privi di sostentamento dopo la morte del padre. Per Bonaria Urrai ella diverrà in questo modo "fill'e e anima": così sono definiti i figli ceduti dalle loro madri naturali a quelle adottive, figli generati due volte, "dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un'altra". Non c'è nulla di strano in questo atto apparentemente deprecabile per la nostra morale. Nella zona, confida infatti Bonaria alla sconcertata maestra del paese Luciana Tellani, - "una del continente" e per questo all'oscuro degli usi del luogo - ci sono almeno tre "fillus de anima". Maria Listru, di conseguenza, è destinata a divenire a tutti gli effetti erede materiale e morale di colei che l'ha adottata e in tale qualità, in una sorte di compensazione per quanto ricevuto, secondo un tacito accordo, dovrà prendersi cura della madre adottiva quando lei ne avrà bisogno. Nel cuore di una Sardegna arcaica e misteriosa, a tratti quasi fiabesca, che conserva gelosamente le radici di una tradizione millenaria, Michela Murgia tesse le trame di una storia toccante ed intensa, di cui sono protagoniste una donna che sceglie di divenire madre, ed una figlia, consensualmente allontanata dalla sua famiglia d'origine. La separazione avviene tuttavia senza traumi: Maria Listru, cresce spensierata, amorevolmente accudita da Bonaria Urrai, grazie alla quale sviluppa una personalità forte ed indipendente. Il suo mondo è fatto di una concreta normalità: a scuola si impegna con profitto, così come nelle occupazioni materiali: il cucito, i lavori in campagna, la preparazione del cibo. Nel libro si trovano infatti alcune minuziose descrizioni riferite alla preparazione di piatti tradizionali come quella riguardante i dolci preparati da Maria in occasione delle nozze della sorella Bonacatta. Ma Bonaria Urrai, la vecchia sarta del paese, che sa riconoscere e allontanare i malefici, nasconde dietro i suoi duri silenzi e il volto inespressivo di maschera senza tempo, un inquietante segreto. Tutti gli abitanti di Soreni lo conoscono e proprio per questo nutrono nei suoi confronti rispetto e timore reverenziale. Solo Maria è all'oscuro della verità, e per questo si chiede con insistenza per quale motivo la donna talora si allontani da casa nel cuore della notte, completamente avvolta dal suo scialle nero. Soltanto lei ignora che Tzia Bonaria Urrai è l' "Accabadora" di Soreni. L'etimologia del vocabolo ci rimanda alla radice spagnola "acabar", finire, e dunque "Accabadora" è appunto "Colei che finisce", colei che recide il filo della vita. L' "Accabadora", con un gesto di pietosa umanità, procurava infatti la morte ai malati terminali. La sua attività è documentata fino agli anni Cinquanta del secolo scorso: su richiesta dei familiari la stessa, con il volto coperto, si recava di notte presso il capezzale del malato e dopo aver provveduto ad eliminare tutti gli oggetti religiosi presenti nella stanza o indossati dall'infermo, con un martello in legno di ulivo lo colpiva in alcuni punti precisi del capo procurandone la morte, oppure lo strangolava o ancora lo soffocava con un cuscino. Si trattava di un atto legittimato dalla comunità e di fatto non impedito dalle autorità civili e religiose. Quando Maria, ormai adulta scopre la verità, la respinge con veemenza, considerando la madre adottiva alla stregua di un omicida, perché "ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno" e a nulla servono le spiegazioni tardive di Bonaria: nella vita "altri hanno deciso per noi, e altri decideranno quando servirà di farlo. Non c'è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada". Maria questo dovrebbe tenerlo bene a mente, prima di decidere di fuggire in continente, ricoprendo l'incarico di governante presso una facoltosa famiglia piemontese. Ci sono le parole di Bonaria a riportarla indietro nel tempo, alla sua vita sull'isola: "Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata"..."Quando verrà il momento, Maria, scoprirai cose di te che non conosci ancora". Guidate da un destino ineluttabile le due donne si incontreranno nuovamente e mai come allora le parole profetiche pronunciate dall'"Accabadora" troveranno compimento. Un intreccio di vita e di morte quello narrato da Michela Murgia, che solleva quesiti universali, minando le nostre certezze.

Il matrimonio di Bonacatta
[...] Il matrimonio di Bonacatta era dunque parsa alla vedova Listru un'occasione più che propizia per un piccolo atto di forza nei confronti di Bonaria Urrai, perché la quantità di dolci e di pane che era necessario cuocere poteva giustificare che Maria si assentasse qualche giorno da scuola. Contraddicendo i suoi peggiori sospetti, la vecchia Urrai non sembrò fare alcuna resistenza, tanto che Maria si presentò nel pomeriggio del giorno stabilito per fare i dolci di mandorle senza bisogno di chiedere due volte la stessa cosa. Forse in fondo ci si poteva lavorare su, approfittando del fatto che sul grande tavolo centrale del soggiorno ci fosse il clima frenetico degli eventi irripetibili. In bella mostra stavano allineati tutti gli ingredienti necessari per gli amaretti, e in quella filiera profumata ciascun paio di mani, comprese quelle della futura sposa, aveva il suo preciso tempo di intervento. Da un lato stavano le mandorle dolci, sminuzzate con la mezzaluna fino a ridurle a un niente, custodite dentro un ampio bacile di terracotta smaltata, pronte per essere mischiate alla farina e alle uova in un biscotto che sarebbe finito nel forno con una mandorla o mezza ciliegia candita piantata al centro. Anna Teresa si era raccomandata di abbondare in farina e risparmiare in mandorle, in barba alla tenerezza del risultato. L'altro lato del lungo tavolo invece era dominato da un monticello di mandorle tagliate a lamelle sottili, che aspettavano di essere cristallizzate nello zucchero insieme a una grattata di buccia di limone: una volta fredde e tagliate a rombi sarebbero diventate un croccante rustico che solo i denti più sani avrebbero potuto affrontare. [...] Maria smise di grattugiare il limone che aveva in mano e prese una delle palline di pasta di mandorle che Regina aveva appena finito di arrotondare. Poi la porse alla madre con aria di sfida. - Lo sai perché i gueffus si chiamano gueffus? Anna Teresa Listru la guardò come se fosse diventata matta, mentre le sorelle avevano smesso di muovere le mani per godersi la scena. - Che domanda. Si chiamano così perché si sono sempre chiamati così. - Sì, ma perché? Perché non si chiamano bombette, o...trictrac? Bonacatta si lasciò sfuggire una risatina, incassando subito lo sguardo di fuoco della madre. - Non lo so. E tu lo sai? Diccelo, maestra Maria, dài. Spiegaci questa cosa fondamentale. - Perché la parola deriva dai Guelfi, i combattenti che nel Medioevo sostennero il papa contro l'imperatore. - Interessante. Si tiravano palle di pasta di mandorle? Stavolta le altre risero tutte, ma Maria proseguì imperterrita. - Si chiamano così perché quando li mettiamo a caramella nella carta, tagliuzziamo i bordi a denti piatti, come le torri dei castelli guelfi. [...]
(Il brano riportato in corsivo è tratto da Michela Murgia, Accabadora, Torino, Einaudi, 2009)

Le ricette
Amaretti sardi (Amarettus)

Dolci tradizionali preparati in occasione di cerimonie (Matrimoni e battesimi).
Sono diffusi in tutta la Sardegna: famosa in particolare, la produzione di Oristano.
Ingredienti: 300 g di mandorle dolci; 200 g di mandorle amare; g 500 di zucchero; 4 albumi; mandorle o ciliegine candite per le decorazioni (facoltative).
Preparazione: Spellate le mandorle immergendole in acqua bollente, quindi dopo averle sgocciolate fatele asciugare in forno tiepido senza farle dorare. Tritatele finemente assieme allo zucchero, amalgamandole con cura. Montate gli albumi e incorporateli al trito di mandorle sempre mescolando. Con l'impasto formate poi delle palline della grandezza di una noce, leggermente schiacciate al centro e disponetele ben distanziate su di una placca rivestita con carta da forno. Se desiderate decorare gli amaretti disponete su ciascuno una mandorla oppure una ciliegina candita. Fate cuocere alla temperatura di 130°-150° fino a quando gli amaretti avranno acquistato un colore dorato (in media dopo 20-25 minuti di cottura). Prima di toglierli dalla piastra, lasciateli raffreddare.
**Una delle varianti della ricetta prevede il tradizionale impiego dello stesso quantitativo di mandorle dolci ed amare.

Gueffus
Questi dolci tradizionali della festa, diffusi in tutta la Sardegna, sono conosciuti nel sud dell'isola con il nome di Gueffus, nel nord assumono la denominazione di Guelfos e nella zona centrale della Sardegna quella di Sospiri (Suspirus/Suspiros).
Ingredienti: 500 g di mandorle; 350 g di zucchero; 1 bicchiere di acqua; 3 cucchiai di acqua di fiori d'arancio.
Preparazione: Spellate le mandorle in acqua bollente, quindi dopo averle sgocciolate, fatele asciugare e tritatele. Portate ad ebollizione l'acqua con 250 g di zucchero e i 3 cucchiai di acqua di fiori d'arancio, fino ad ottenere uno sciroppo denso (senza farlo caramellare). Aggiungete quindi le mandorle tritate e proseguite la cottura a fiamma dolce per qualche minuto, sempre mescolando, sino a che la pasta si sarà asciugata. Una volta che il composto si è raffreddato, ricavate dall'impasto delle palline, passatele nello zucchero rimanente ricoprendole per intero e fate asciugare. Infine avvolgetele come caramelle in carta velina colorata sfrangiata ai lati.
**A piacere potete sostituire l'acqua di fiori di arancio con la scorza grattugiata di un limone.


L'autore
Michela Murgia (Cabras, 1972)

Pubblicazioni
Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, Milano, Isbn, 2006. Dal testo è stato tratto il film "Tutta la vita davanti" (Italia, 2007) di Paolo Virzì.
Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell'isola che non si vede, Torino, Einaudi, 2008
Accabadora, Torino, Einaudi, 2009