RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Cinema

TOTÒ A NEMI: La patente (1954)

scena del film, piazza Umberto I, sullo sfondo via Cavour e l'arco di Palazzo Ruspoli, Nemi Il territorio dei Castelli Romani è stato scenario di numerose pellicole interpretate da Totò, sulle quali ci soffermeremo anche nei prossimi numeri: da Sette anni di guai (1951) a Totò, Peppino e... la malafemmina (1956), da Totò e Carolina (1955) al celebre episodio La patente (1954), con il Principe nei panni di un temibile iettatore, oggetto di questo articolo.
Diretto da Luigi Zampa La patente è il terzo dei quattro cortometraggi che compongono il film Questa è la vita (gli altri sono La giara diretto da Giorgio Pàstina, Il ventaglio di e Marsina stretta diretto e interpretato da Aldo Fabrizi). Tutti gli episodi sono tratti da novelle di Luigi Pirandello e analizzano il rapporto tra l’essere e l’apparire, persona e personaggio, tra i cardini della poetica pirandelliana.
Nell’episodio La Patente, sceneggiato da Zampa e da Vitaliano Brancati, Totò interpreta Rosario Chiarchiaro, un povero disgraziato che in paese ha fama di grande iettatore. Ridotto all’esasperazione e alla miseria da questa cattiva reputazione, decide di ribellarsi rivolgendosi al giudice affinché gli vengano riconosciuti ufficialmente i suoi poteri malefici. Con la patente di iettatore avrà modo finalmente di far vivere agiatamente la sua famiglia e di essere temuto e rispettato dalla comunità.
Totò raffigura lo iettatore così come ce lo dipinge la tradizione popolare: un uomo torvo, solitario, pallido, con un paio di grandi occhiali neri (quegli occhiali che, per ironia della sorte, sarà costretto ad indossare per davvero negli ultimi anni di vita a causa di seri problemi alla vista che lo renderanno, dopo il 1957, quasi completamente cieco). Un ruolo che diventa per Totò, da napoletano verace estremamente superstizioso (il Principe odiava i numeri 13 e 17, i gatti neri, detestava il colore viola, non prendeva decisioni importanti il martedì o il venerdì, e, ovviamente, aveva una paura terribile degli iettatori), anche un modo per esorcizzare il problema.
La patente è girato interamente a Nemi dove viene ricreato il paesino bigotto e benpensante della novella di Pirandello. La maggior parte delle riprese esterne sono effettuate tra Corso Vittorio Emanuele e Piazza Umberto I, filmata da diversi punti di vista. Si riconoscono i principali monumenti e luoghi della pittoresca località castellana: dalla celebre mole di Palazzo Ruspoli alla Cappella del Crocifisso, dal Belvedere di Corso Vittorio Emanuele alla settecentesca Parrocchiale della Madonna del Pozzo (o di Santa Maria Assunta), ai caratteristici vicoli del centro storico su cui affacciano botteghe artigiane, bar e trattorie. Indimenticabile l’immagine di Totò che, in “divisa” da iettatore con tanto di bastone dal pomello a forma di gufo, spunta da via Cavour e si dirige lungo il Corso suscitando gli scongiuri dei passanti o quando sbuca improvvisamente da dietro un muro mentre alle sue spalle si intravedono le scalette della Salita Garibaldi. Il film si chiude con un totale del paese ripreso da via del Plebiscito mentre Totò, forte della sua patente, si allontana dall’odierno Largo delle Vittime del Terrorismo, sfidando l’odiato borgo: «E ora a noi due». Un finale troppo audace per la censura dell’epoca che, per ridimensionarne la carica grottesca e drammatica, fa aggiungere da una voce fuori campo il commento posticcio: «Ma la lotta col paese non ci sarà perché anche per Rosario Chiarchiaro la vita tornerà a sorridere, con e senza patente».
Il film di Zampa non solo conferma lo straordinario talento comico di Totò, ma ne evidenzia anche le notevoli potenzialità drammatiche che sarebbero esplose in alcuni film successivi, in particolare nelle pellicole girate per Pier Paolo Pasolini. Ne La patente non c’è spazio per i giochi di parole, le smorfie, gli sberleffi e i “qui pro quo” che hanno reso celebre il suo personaggio. L’incontro con Pirandello, scrittore che il Principe amava particolarmente, aggiunge al suo personaggio, che aveva già iniziato ad assimilare gli elementi umani e psicologici del Neorealismo, un forte senso di amarezza e sofferenza. Del resto la convinzione di Totò che la comicità vera abbia sempre un fondo triste e tragico si sposa perfettamente con l’umorismo pirandelliano.
Totò era molto orgoglioso del film e a fine lavorazione confesserà a Zampa: «se io potessi sempre recitare dei testi come quelli che lei mi ha dato e fare cose di questo genere! Invece faccio tanti film in cui sono costretto a inventarmi tutto, il mattino arrivo in teatro e non trovo niente, debbo creare i lazzi, le battute, tutto da zero».
Per la rubrica Cinema - Numero 63 giugno 2007