Vivavoce - Rivista d'area dei Castelli Romani

RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Biblioteca di Trimalcione

Profumi di primavera

Pecorelle ed agnellini di marzapane simboli della liturgia pasquale per celebrare il giorno di festa e l’arrivo della nuova stagione.

"Di Tano si diceva che era «in giro»; ma ogni due settimane Gesuela riceveva da Parigi una lettera del fratello e una scatola con dentro una capretta di pasta reale, ognuna più bella di quella che l'aveva preceduta. E così lei sapeva che Tano la pensava e che anche lui era a Parigi"

La pecora di Pasqua o agnello pasquale, emblema del martirio e della resurrezione del Salvatore, diviene protagonista del racconto di Simonetta Agnello Hornby e della sorella Chiara, attraverso una deliziosa leccornia a base di pasta di mandorle e pistacchi, riproducente le esatte fattezze dell'ovino. Tradizionalmente raffigurato con l'insegna della vittoria, il tenero e goloso quadrupede di pasta reale, reca sul dorso il vessillo rosso che celebra la risurrezione di Cristo, simbolo del trionfo della vita sulla morte.

La pecora di Pasqua
“Nomen omen", "Il destino nel nome" affermavano i Romani, attribuendo al proprio appellativo la responsabilità di un'ineluttabile predestinazione. Mai come in questo caso l'esempio potrebbe essere più calzante, dal momento che le due sorelle palermitane Simonetta e Chiara, autrici del poetico racconto dedicato al caratteristico dolce pasquale, recano nel loro nome di famiglia il vocabolo "Agnello" e forse proprio per questo, hanno finito col dedicare al mite ed innocente erbivoro, un delizioso e goloso viaggio in terra di Trinacria, un percorso che unisce alla piacevolezza della narrazione, la passione per l'arte culinaria ed il gusto per la ricerca storico-gastronomica. Chiaramente Simonetta Agnello Hornby, svela come la creazione de "La pecora di Pasqua", sia dovuta in realtà ad una serie di accadimenti personali verificatisi nel 2012. Proprio in quell'anno infatti, si sono celebrati i dieci anni dalla pubblicazione de "La Mennulara", l'opera prima, il romanzo che l'ha fatta conoscere al grande pubblico, attraverso un maestoso e passionale affresco della Sicilia e di una donna indimenticabile e misteriosa come "la raccoglitrice di mandorle". Nello stesso anno inoltre, è stato rieditato "Un filo d'olio", il romanzo ambientato a Mosè, la masseria immersa nella campagna agrigentina, dove la scrittrice e la sua famiglia erano soliti trascorrere la villeggiatura. E attraverso le atmosfere, i profumi e soprattutto i piatti cucinati dalla nonna Maria, e minuziosamente descritti nel testo, l'autrice ci consegna un "ricettario familiare", che tra una portata e l'altra, ci ammalia con il suo racconto impregnato di personaggi, aneddoti e reminiscenze di un tempo ormai lontano. E sempre nel 2012, nella collana di cucina letteraria curata da Slow Food, è stato infine pubblicato il racconto "La pecora di Pasqua", un libro nato proprio per festeggiare l'anniversario della "Mennullara" e una carriera letteraria memorabile che fa dell'autrice siciliana una fra le scrittrici italiane più tradotte nel mondo. Ad accompagnarla in questa straordinaria avventura è stata la sorella Chiara che ormai da tempo, gestisce un apprezzato agriturismo nella masseria ottocentesca all'interno della tenuta di famiglia, la "Fattoria Mosè", dove si possono gustare molti dei piatti "raccontati" nell'intera produzione letteraria di Simonetta Agnello Hornby. La novella è ambientata in Sicilia, in quella che Omero definisce "La verde isola Trinacria, dove pasce il gregge del sole" e ricostruisce in maniera circostanziata ma al tempo stesso non immune da momenti lirici e commoventi, la storia del celebre ovino in pasta di mandorle che assieme alla "cassata", torta tipica a base di ricotta, pan di Spagna, pasta reale e canditi, rappresenta la produzione più caratteristica della pasticceria siciliana. Le vicende narrate prendono inizio a Favara, paese collinare non lontano da Agrigento, dove vive la quattordicenne Gesuela, insieme al padre medico, al fratello Gianni e alla balia Nunziata. Il padre è un ricco possidente, proprietario tra l'altro di numerose cave da cui vengono estratte grandi quantità di zolfo, venduto in tutta Europa. Sentendo che la sua vita volge ormai al termine, il medico confida alla figlia il desiderio di vederla presto convolare a nozze; contravvenendo tuttavia ad una delle consuetudini più radicate, come quella dei matrimoni combinati, chiede espressamente che sia soltanto Gesuela a scegliere il proprio marito: se questo avverrà la stessa riceverà in dote Narbone, un vasto appezzamento montuoso dominato da colline pietrose "perciate da caverne", alternate a colline più dolci con mandorleti e campi di grano. La ragazza, durante una delle tante passeggiate esplorative nelle terre che sarebbero divenute di sua proprietà, incontra per la prima volta delle strane creature "dal lungo pelo bianco chiazzato di marrone, simili a capre, ma con altissime corna a torciglione". «Sono capre girgentane» le svela il campiere che l'accompagna. E una volta tornata a casa la giovinetta, ascoltando per caso "i cunti" delle donne che ricamano il suo corredo, scopre l'esistenza di una maledizione legata proprio a quelle capre: "Chiunque ne diverrà proprietario diverrà sterile e assieme a lui i suoi figli". Gesuela tuttavia dimentica presto quelle parole, probabilmente dettate dall'invidia per la sua ingente dote e, durante una delle sue incursioni in campagna, incontra l'amore: il guardiano di capre Tano "un giovane biondo dalla pelle abbronzata e i capelli ricci, bello come il Ganimede che aveva visto su un libro illustrato del padre". Purtroppo però il suo sentimento non è ricambiato e inevitabilmente la malinconia e il mal d'amore si impossessano delle sue giornate. Si avvicina la Santa Pasqua e le donne del paese, così come le monache del convento delle Benedettine di Favara, preparano i dolci della festa: "cupolette di pasta reale imbottita di zuccata o di conserva di pistacchi magnificamente decorate". Anche Gesuela partecipa alla preparazione delle squisite paste di mandorle, ma senza quasi che se ne accorga dalle sue mani, anziché le forme usuali dei dolciumi, escono caprette con tanto di barbetta e ciuffo, tali e quali a quelle di creta che le aveva regalato Tano. Nasce così in lei l'idea di rivolgersi alle monache Benedettine affinché le stesse possano modellare le medesime caprette in pasta reale per poi metterle in commercio...Comincia così l'affascinante storia del dolce tipico siciliano legato al periodo pasquale e prodotto ancor oggi. Nell'epilogo del racconto sono contenuti un'accurata descrizione della prelibata preparazione e il segreto dell'amore mancato di Gesuela. A completare la pubblicazione inoltre, in appendice, una breve digressione sulle origini del marzapane, alcune considerazioni sulla produzione ed il commercio delle mandorle e dulcis in fundo, la ricetta della pecorella di pasta reale di Favara.

[...] Fu allora che le venne l'idea di fare qualcosa di suo e chiese alle monache benedettine se volessero modellare quelle caprette nella pasta reale e venderle: lei avrebbe fornito loro le mandorle, lo zucchero e i pistacchi per il ripieno. Prese ad andare al convento ogni mattina per organizzare il lavoro e si divertiva con le educande: a poco a poco, queste cambiarono le caprette in pecorelle, le cornicchia erano troppo difficili da fare. Le pecorelle di pasta reale ripiene di pistacchio divennero famose in tutta la Sicilia. Ogni pecorella che vedeva, per Gesuela era come un bacio che lei soffiava al vento, perché lo portasse a Tano [...]