Vivavoce - Rivista d'area dei Castelli Romani

RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Biblioteca di Trimalcione

Il gusto compiuto del tacchino farcito

ovvero il pantagruelico simposio natalizio della nobile famiglia siciliana dei Malaspina

Dopo cinque anni di assenza, il giorno di Natale, un tacchino di dieci chili arrivò superbo in tavola, festeggiato più della nascita di nostro Signore. Dorato, fragrante e appena velato dal fondo di cottura, promise e mantenne delizie..." "Oh! Felice giorno di Natale, delizia per la gola, gaudio per l'anima, tregua ai piani futuri, momento di pausa e riposo, vacanza di zanne affilatissime, occasione conclamata per donare, perdonare insinuazioni, angherie, perfidie e donare, donare, donare tre volte...

Un racconto dalla potente impronta cinematografica, in cui le sequenze narrative si susseguono ritmate da accurate descrizioni del contesto sociale, ambientale ed emotivo dei personaggi; scene di vita familiare immortalate dalla vivida e immaginifica scrittura di Alda Bruno, nella sua short-story "Tacchino farcito" pubblicata dalla casa editrice Sellerio dapprima nella collana "Il divano" e successivamente, in una nuova veste grafica, nella collezione "La memoria". Attraverso la puntuale analisi dell'evoluzione della ricetta del tacchino ripieno, arricchitasi via via nel tempo con ingredienti diversi e inconsueti rispetto alla preparazione originaria, l'autrice ripercorre un secolo di storia del nobile casato dei Malaspina. Per raggiungere il "gusto compiuto" del tacchino farcito, quest'ultimi impiegarono infatti quattro generazioni: Natale dopo Natale, nel sontuoso simposio allestito in occasione della festività più importante dell'anno, le saporose carni bianche dominarono la tavola, mutevoli e cangianti come i commensali che si avvicendavano al desco. Volti e storie personali dissimili, legati indissolubilmente fra loro dalla gustosa ricetta natalizia. Un gruppo sociale di nobile lignaggio in cui le consuetudini e le tradizioni di famiglia rappresentano da sempre, unitamente al cospicuo patrimonio, un'eredità da trasmettere e difendere a qualsiasi costo. Per questo le numerose donne appartenenti all'aristocratica prosapia sono costrette a contrarre matrimoni solo nell'ambito della propria casata, per questo una volta unite nel vincolo coniugale, consumano la propria esistenza nella spasmodica ricerca di un figlio maschio, in grado di assicurare la sopravvivenza della stirpe, perpetuando la continuazione del nome dei Malaspina e impedendo al contempo la dispersione degli averi di famiglia. Come in un immutabile ed ininterrotto gioco delle parti, i protagonisti della storia rimangono così prigionieri dei loro ruoli, attori di un'illusoria metamorfosi che non riesce a mutare i loro destini e che vede nella reiterazione delle rispettive condotte, l'incapacità oggettiva di produrre un cambiamento reale. La famiglia ritratta da Alda Bruno è una moltitudine di padri, mogli, figli, nipoti, fidanzati, generi che confluiscono con le loro voci multitonali in un esilarante coacervo di screzi, lotte, misfatti, velleità e debolezze. Brioso e a tratti sarcastico, il racconto mescola dunque con innata e sottile eleganza, progenie e cucina, modernità e tradizione. La smisurata avidità del clan dei Malaspina e le lotte intestine per alimentarla ci ricordano da vicino la cupidigia, i privilegi, la brama di potere insita da sempre nell'uomo, ma il loro confine aleatorio svanisce nella nebbia del compromesso. Il succulento tacchino, metafora dell'egemonia e del potere, rappresenta dunque l'unico punto di unione tra i componenti del nutrito nucleo familiare, una sorta di matriarcato in cui le donne lottano per il reperimento e la conservazione del patrimonio, vestali sacrificate al perenne culto de "La roba" di verghiana memoria. La sola vera mutazione, ci suggerisce l'autrice, avviene a tavola, nell'evoluzione costante di una ricetta tramandata di generazione in generazione. Alla formula originaria in cui si prevedeva che il tacchino, rigorosamente non disossato, fosse farcito con "un piccioncino in umido lasciato a metà cottura e poggiato su un nido di salsicce e formaggio pecorino", si aggiungono così via via nuovi ingredienti mentre altri, nel tempo, vengono definitivamente eliminati. In una sorta di processo irreversibile che conduce alla "globalizzazione del gusto", si passa dunque, in sintesi, da un piatto di cucina tipicamente italiano ad una ricetta di respiro internazionale. "Del resto in casa Malaspina libero fu solo il tacchino. Quel tacchino farcito dorato e superbo che con un colpo delle sue inutili ali, disfatte nel pentolone del brodo, si liberò delle tradizioni - il prevedibile ripetere sempre gli stessi avvenimenti - e si avviò sulla strada del meglio"...

[...] Se è vero che la nuora, oltre al grande aiuto dovuto all'esperienza di suo padre, non aveva portato "niente", neppure un laccio, è pur vero che apportò una novità di tutto rispetto nella farcia del tacchino. Fu lei ad aggiungere le castagne, abitudine del suo pallido nord. Le faceva cuocere nel brodo, le univa al ripieno, serviva le più belle come contorno ed arrivavano in tavola lucide e come glassate. Maria Paola era fermamente determinata ad amare sua nuora, anche se quella donna quieta non toccava il suo cuore; e poi le castagne le sembravano farinose, assorbivano gli umori del tacchino in cottura, dando pochissimo in cambio. Ma certo, se le castagne piacevano a sua nuora, le castagne dovevano rimanere.[...]«Mangiamoci in pace questo bel tacchino e vediamo come ci stanno le castagne del Prete». Superbe. Le castagne del prete furono un colpo di genio, un'accoppiata vincente, un binomio indissolubile, un'amicizia indistricabile, un colpo di fulmine, un afflato, un soffio di poesia. Si unirono per sempre alle mele, alle spezie d'Oriente, - indispensabili spose del tacchino - mai più se ne sarebbero separate. Le castagne del Prete surclassarono per sempre i piselli e la purea di patate. Rimasero, quasi amanti occasionali, le cipolline glassate, e per l'insolito piacere di un amore efebico i sodi glutei dei funghetti champignon"...