Vivavoce - Rivista d'area dei Castelli Romani

RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Cibo per la mente

Pascoli, il libro e la bicicletta

Intervista a Giorgio Bàrberi Squarotti

Due cenni: chi è Giorgio Bàrberi Squarotti e quali sono stati i suoi incontri con le scuole dei Castelli e di Roma in occasione del suo libro su Pascoli nel centenario della morte del grande poeta.
Giorgio Bàrberi Squarotti è universalmente considerato uno di massimi critici letterari del XX secolo. Professore emerito all'Università di Torino, direttore del "Grande Dizionario della Lingua Italiana" della UTET, redattore della stessa enciclopedia, autore di oltre cento volumi sull'intero arco della nostra storia letteraria, studioso rivoluzionario e contro corrente, si deve a lui la revisione su tanti autori celebri, da Machiavelli a Gianbattista Marino, di tutto l'Ottocento (vedi il volume "Ottocento ribelle", ed. Anemone Purpurea), del XX secolo (si leggano i testi editi da Cappelli sul primo Novecento Letterario, poetico e critico), ma soprattutto "Il codice di Babele" (Rizzoli), dove ci sono tracciati i fondamenti del metodo esegetico da lui creato e realizzato in tanti studi ormai famosi nel mondo.
È venuto ai Castelli Romani, per presentare "Pascoli, il libro e la bicicletta" presso il liceo Joyce di Ariccia. Gli altri incontri interessano Roma, Università Tor Vergata con il prof. Fabio Pierangeli e il liceo scientifico Newton diretto dalla preside Ivana Uras, ma il primo impegno alla sua venuta nella Capitale è stato quello di ritirare un premio importante a lui dedicato: "Terzo Millennio", al Teatro dei Dioscuri, presentato dal poeta Giulio Panzani.
In questo tour de force, è riuscito a rilasciarci un'intervista per "Vivavoce".

 

Professore, è vero che Pascoli è alla base di tutta la poesia del Novecento italiano?
Non sarei così radicale: il Pascoli certamente è stato significativo per la nostra poesia del Novecento, ma gli echi, in poesia, sono sempre innumerevoli, e quelli della contemporaneità discendono fin dalle origini classiche e bibliche. Ci sono poeti che più hanno ascoltato i modi e l'idea poetica del Pascoli, come Zanzotto, Sereni, Quasimodo, il primo Montale, l'ultimo Ungaretti, Parronchi, Barile; altri, meno. In ogni caso, tocca ai critici del Novecento rilevare situazioni e aspetti dei singoli autori.

Chi ha influito di più, nel XX secolo, tra Pascoli e d'Annunzio?
Gli echi pascoliani sono più facilmente riconoscibili, mentre quelli dannunziani sono più segreti, quasi sempre camuffati, perché la sciagurata ideologia (cioè la cattiva coscienza) che ci ha aduggiati dal dopoguerra fino agli anni ottanta, pretendeva che di d'Annunzio si parlasse il meno possibile sia per ragioni politiche, sia per motivi moralistici. Bisogna tenere conto del fatto che i riferimenti dannunziani riguardano soprattutto la narrativa.

Nel suo interessantissimo libro sul centenario della morte del poeta, si legge, fra l'altro, che d'Annunzio e Pascoli scrissero una poesia, un epicedio al re Umberto I quando venne ucciso dall'anarchico Bresci; però la visione e il contenuto delle due liriche sono diametralmente opposti. Ce ne vuol parlare?
Per comprendere i procedimenti della poesia è utilissimo confrontare testi analoghi di due (o più) autori, che spesso gareggiano l'uno con l'altro nel trattare quel tema: nel nostro caso, le due odi, di d'Annunzio e Pascoli, che escono su riviste a un giorno di distanza. Il Pascoli guarda al re morto come l'esempio supremo del fatto che il Male è più forte di Dio, e che l'unica resistenza è la speranza del futuro per l'Italia nel lavoro, nello studio e nel dovere di compiere l'unità dello Stato con l'acquisizione di Trento e Trieste, mentre d'Annunzio vede il re morto come colui che liquida con la sua scomparsa l'infame decennio dell'ultimo ottocento, con gli scandali, la degradazione politica, la speculazione edilizia, le stragi governative in Sicilia, nelle campagne del Nord e a Milano, e assume la funzione del profeta biblico che ammonisce il nuovo re a seguire il modello di giustizia, di ordine e di rinnovamento del Paese facendolo anche militarmente più forte. L'ode del Pascoli è un'elegia che si conclude nella speranza e il nuovo re è, sì, citato, ma non ha una funzione importante nel testo. Quella di d'Annunzio è, appunto, profetica, volta al sublime, ma anche ammonitaria: se il "re giovane" non ascolterà la voce del poeta, questi non esiterà a biasimarlo e a condannarlo pubblicamente.

Cosa apprezza di più dei Castelli Romani?
I monti, le colline, i laghi, i luoghi antichi e anche un poco segreti, il centro antico dei paesi e delle città. Il peggio è la mania di costruire a ogni costo, ma questa mania è un orrore analogo nell'intera Italia.

Lei ha osservato, fra amici, che il traffico dei Castelli è superiore a ogni parte della Penisola da lei visitata.
Sì, il traffico è insopportabile: bisognerebbe chiudere larghe zone dei paesi al traffico, onde poter godere in pace la bellezza dei luoghi. In Italia, per fortuna, in tante città a questo risultato si è giunti, con molto vantaggio anche per il commercio.

Quali sono gli autori che lei più ama, certo non tra i viventi...
Mi guardo bene dal citare i nomi di poeti italiani: rischierei l'ostracismo o le minacce di morte.

Cosa pensa dei premi letterari?
Una volta a premiare con denaro e onori i letterati erano i prìncipi; oggi tocca ai premi letterari. Il guaio è che, sia in un caso, sia nell'altro, né il principe per lo più capisce qualcosa di letteratura, né informate e competenti sono le giurie. Capita che ogni tanto il premiato sia valoroso e capace, ma spesso professori e professoresse sono rimasti, quanto alla letteratura, al patetico tardoromantico o al realismo e alla politica, tristemente enfatici, con tanti lamenti su vittime e gabbiani. La poesia è altro dalla cronaca: deve dire ciò che non sappiamo o non comprendiamo chiaramente o deve spiegare nell'essenza cosa sono le ragioni fondamentali del tempo umano, come la vita, l'amore, la morte, la storia stessa, se abbia o non abbia un senso.

 

Per la rubrica Cibo per la mente - Numero 114 febbraio 2013