Vivavoce - Rivista d'area dei Castelli Romani

RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Pepite

Intervista a Giulio Ferroni

Grazie al lavoro costante dei nostri collaboratori che, come cercatori d'oro, setacciano il territorio dei Castelli Romani per portarne alla luce i loro tesori più preziosi - i talenti direbbero gli economisti della cultura - siamo oggi contenti di poter offrire ai nostri lettori l'intervista che Aldo Onorati fa a Giulio Ferroni che vive a Monte Porzio e insegna alla Sapienza di Roma Una ulteriore "pepita" che possiamo aggiungere alla nostra collezione, che curiamo gelosamente, certi di poterne un giorno valorizzare il contenuto. (ED)

 

Intervista:

Giulio Ferroni, uno dei maggiori critici letterari contemporanei, è Ordinario di Letteratura italiana all'università di Roma "La Sapienza". Profondo studioso di Machiavelli, Ariosto, Cellini, Castiglione, Annibal Caro, il suo interesse investe anche altri secoli della nostra letteratura, specialmente il Novecento, di cui ha affrontato con originale esegesi, fra le altre, l'opera pirandelliana. Collabora alle pagine culturali dell' "Unità". Segnaliamo, tra le sue fondamentali pubblicazioni: "Le voci dell'istrione: Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro", "Storia della Letteratura italiana" in 4 volumi (Einaudi-Scuola), il polemico e coraggioso "Scrittura a perdere. La letteratura negli anni zero" (Einaudi) e, recentissimo, "Commedia" (Guida editori). Vive a Monte Porzio, nei Castelli Romani.

Oggi, tempo di una nuova "Arcadia" - Romanzi e telenovele: il diktat televisivo della pubblicità - Livellamento in basso della cultura - Largo ai giovani - I posteri: una specie in via di estinzione

D. Gli scrittori, più dei filosofi, sono la documentazione spesso inconsapevole del tempo e del luogo in cui vivono. Non le sembra che oggi gli autori di grande successo di pubblico percorrano vie disimpegnate come fece l'Arcadia dopo il concilio di Trento?

R. Sì, siamo nel tempo di un'Arcadia che si presenta magari anche attraverso riferimenti espliciti all'attualità: c'è tanta narrativa che parla dei fatti dell'Italia contemporanea e sembra tutta immersa fortemente nel presente, però di questo presente dà un'immagine stereotipata, già fatta, direi addirittura prevista dalla televisione, lo stesso presente che vediamo mediato dallo spettacolo televisivo. Allora, in apparenza vediamo tanta narrativa che sembra parlare della più bruciante realtà contemporanea e non sembrerebbe proprio un'Arcadia; in realtà, invece, è proprio un'Arcadia, perché non ci dà una conoscenza di quello che c'è sotto l'apparenza della realtà e sotto l'apparenza televisiva, ma offre dei modelli predefiniti, precostituiti. La grande Letteratura scava sotto, capta ciò che l'occhio normale non vede: essa non può avere, spesso, un riscontro immediato di pubblico. La letteratura corrente ha successo perché va incontro a quello che i lettori già si aspettano. Il pubblico non viene chiamato in causa criticamente, ma vede lo specchio di ciò che già conosce. Per esempio, penso a quella letteratura che mette in scena la violenza quotidiana: alla fortuna del noir, del giallo etc. Sembra che essa denunci lo stato tremendo in cui si trova il Paese. Sembra. Forse le cose poi sono più gravi ancora. Ma le cose gravi stanno sotto. La grande Letteratura assorbe lentamente il senso del reale, lo critica, lo stravolge: può realizzare le invenzioni più diverse, cioè può parlare anche della realtà più profonda attraverso la fantasia, legando mondi inesistenti: però sotto questi mondi inesistenti ci può essere un fuoco che rivela il male e il bene del presente. Invece, la letteratura che ci presenta quello che vediamo tutti i giorni non fa niente di grande e di autentico.

D. La Tv segue l'indice di gradimento, abbassando, in concorrenza con altri canali, l'indice di qualità. A molti sembra che l'editoria ricalchi il calo della cultura e del gusto tipici della televisione.

R. Certamente, questa è una cosa che vediamo spesso, anche se guardiamo le classifiche: a parte alcuni autori già incoronati, si vendono di più i libri di personaggi televisivi, che possono essere giornalisti, comici, cantanti... Fra l'altro alcuni cominciano a scrivere casualmente e poi diventano autori addirittura incoronati, perfino da certa stampa. Facciamo l'esempio di maggior successo da questo punto di vista: Giorgio Faletti. Buon attore, a un certo punto si è messo a scrivere un romanzo e dopo il successo di questo libro ha cominciato a pubblicarne tanti altri. Circa il suo primo volume (mi pare "Io uccido", ma non ricordo in che anno è uscito), lo hanno addirittura inserito tra i 150 classici dell'Unità d'Italia quando ne è stato elaborato l'elenco per il salone di Torino per iniziativa del Centro del Libro di Gian Arturo Ferrari. Questo è veramente qualcosa di paradossale. Tra l'altro tale classifica è stata elaborata, per gli anni più lontani, anche consultando qualche studioso; poi però, per i tempi più recenti, è stato seguito il modello del successo editoriale. Tra l'altro non si dovrebbe considerare solo la narrativa, ma anche la poesia. Ebbene, io ho notato che in questo elenco non c'è nemmeno un libro di Giorgio Caproni, uno dei più grandi poeti del Novecento; però ci sta Faletti tra i 150 libri dell'Unità d'Italia!

D. Parliamo un momento del suo coraggioso libro "Scritture a perdere- La letteratura negli anni zero" (edito da Laterza). È un'opera di cui si sentiva il bisogno. Il crescente fenomeno di insignire coi premi più ambiti in Italia i giovanissimi scrittori alla prima opera, non è una moda? Come è venuta fuori e perché si continua ad alimentare?

R. Naturalmente questo è sempre un po' collegato al gioco di effetti dati dai media, dalla televisione: c'è un mito della giovinezza nella cultura contemporanea; c'è stato per tutto il Novecento. È un mito che a un certo punto è stato sfruttato dall'editoria. E tutto riesce meglio quando il giovane ha una bella presenza: è un bel ragazzo, è una ragazza avvenente. Allora il successo è ancora più assicurato. E poi c'è un paradosso: nello stesso tempo, come sappiamo, come si dice ogni giorno, la società globalmente respinge i giovani, non dà loro spazio, specie nel mondo del lavoro. Però in questi piccoli universi (nel caso specifico quello letterario-televisivo), la giovinezza viene invece esaltata. Anche il Presidente del Consiglio è un ammiratore delle giovani...

D. Quando c'erano i Carlo Levi, i Pasolini, i Calvino, i Primo Levi, i Bassani, i Rea, i Moravia..., già si disquisiva sulla morte del romanzo. Ora che ci sono le Mazzantini, le Tamaro, o Moccia, i Paolo Giordano, i Volo, credo che sia rimasto soltanto da scrivere l'epicedio sulla tomba del genere romanzo. Eppure, io leggo opere degne di essere prese in considerazione, ma regolarmente non hanno successo né vincono premi. Come si spiega tutto ciò?

R. Perché naturalmente non seguono il modello di schema rivolto al target già precostituito. È chiaro che il romanzo come struttura globale, insomma come struttura narrativa tradizionale rischia sempre più di essere trasformato in un oggetto di consumo, anzi in un oggetto che ha dentro di sé già la sceneggiatura di un film. Molti libri di successo sono concepiti così: quasi sempre da un romanzo di successo si ricava un film. Ma noi sappiamo che l'originalità del romanzo dovrebbe essere legata a un lavoro sul linguaggio, sul tempo narrativo, sulle contraddizioni della realtà. Forse più che i romanzi ben fatti, oggi sono interessanti quei tentativi narrativi che in un certo senso vedono la realtà da più facce, che mischiano riflessioni saggistiche e narrative, magari elementi autobiografici ed elementi oggettivi, storici. Insomma, i romanzi a più strati. Io dico che, proprio perché oggi si scrive troppo (è facile servirsi del computer per scrivere più rapidamente) e tutti vanno di fretta, il racconto diviene il "genere" che permette di scavare nelle forme linguistiche attraverso la costruzione dell'io.

D. Professore, in tempi nemmeno troppo lontani, diciamo quando la Tv era in bianco e nero, si trasmettevano sceneggiati dai grandi libri; così faceva il cinema. Oggi, almeno a me sembra, la tendenza è ribaltata: i testi di narrativa si adeguano alle telenovele in attesa di essere trasposti per lo schermo. La mia domanda, però, vuole andare oltre: non pensa che sotto sotto ci sia un disegno destabilizzatore della cultura italiana?

R. Sì, certo. Magari non è un disegno esplicitamente elaborato a tavolino, ma che in definitiva tende a far prevalere soprattutto una cultura mediatica, basata su modelli appunto televisivi, pubblicitari. Forse quella che domina tutto è la pubblicità, che entra davvero dovunque. È chiaro che ogni forma di cultura (di narrativa, di cinema), che abbia un intento critico, reale, sotterraneo (non - come dicevamo prima - secondo la critica già prevista dal sistema, ma secondo una critica che pone degli orizzonti nuovi), è emarginata. Siamo sotto questo dominio dei media e della pubblicità: un dominio legato strettamente al populismo, perché fa appello al diritto del popolo consumatore e non a possibili modelli educativi. Anzi, sembra esserci addirittura un rifiuto di questi ultimi.
La televisione di quei tempi è stata per l'appunto accusata, quando è avvenuta la rottura del grande modello televisivo, di essere pedagogica, educativa; ora, invece, si vuole soltanto favorire quanto il pubblico già chiede. Quella Tv degli anni '50-'60, con tutti i suoi limiti, si confrontava con la grande cultura, intendeva portare il popolo degli spettatori ad un incontro con cose che non gli venivano date nella vita quotidiana. Oggi la televisione fa totale riferimento alla pubblicità. Poi c'è anche l'audience (diviene così un giro chiuso dal quale non si esce). Allora vale il giudizio a priori di un pubblico ineducato? In questo caso è chiaro che non si cerca mai di andare al di là di ciò che il pubblico vuole: e semmai si inventano cose che vanno incontro alle tensioni più sotterranee, più negative del pubblico stesso. Si inventano i Grandi Fratelli, si insiste sulle volgarità del cattivo gusto, si dà spazio a cose che potrebbero essere pure originali dal punto di vista tecnico, ma che in definitiva vanno incontro a una disgregazione dell'esperienza quotidiana. La favoriscono anziché correggerla. Insomma, quella televisione vecchia, democristiana, magari piena di paure nei confronti del sesso, aveva un orizzonte che tendeva all'acquisizione di una nuova coscienza...

D. Infatti si trasponevano per il piccolo schermo opere del calibro dei "Fratelli Karamazov" di Dostoevskij, si trasmettevano settimanalmente opere liriche, i dibattiti erano più composti, la lingua e la pronuncia dei presentatori molto più curate... So che c'è una telenovela che dura da oltre vent'anni, americana, ancora piuttosto seguita...

R. È vero. Ci sono questi serial, a volte tecnicamente fatti benissimo: però la maggior parte di queste cose seriali non fanno che rappresentare la quotidianità della vita di questo o quel Paese (americano o italiano): è una fotografia della normalità del presente con tutte le sue ovvietà. Qualche frammento può essere pure interessante, ma è chiaro che vi si perde completamente il rapporto con la possibilità di interrogare in profondità il senso vero della vita. La grande cultura ci mette di fronte alla problematicità dell'esistenza, problematicità che, così, oggi viene ignorata.

D. Nel suo libro lei parla della ricerca ossessiva dell' audience, ma anche dell'unico fine dei libri: il successo e le vendite. Ora, siccome il tutto si mescola alla fretta nemica dell'arte, siccome il fenomeno sembra essere irreversibile, l'autore serio e vero è fatto fuori.

R.. Non si può assolutamente pensare a un grande scrittore che sorga dal nulla e che possa vivere con i guadagni delle sue opere. Proprio perché c'è bisogno di un lungo lavoro sul linguaggio, di un'attenta riflessione. Invece oggi, uno scrittore che magari comincia bene, viene subito trascinato in questa macchina irrefrenabile che impone di fare un libro l'anno, a tutti i costi. Allora è chiaro che pure le doti più originali finiscono per consumarsi. Forse può venire qualcosa di grande da chi fa un lavoro completamente diverso e, nella lentezza dei suoi giorni, del proprio tempo libero, scrive qualcosa. Solo che, siccome quelli che pubblicano sono talmente tanti e poiché i meccanismi per emergere sulla scena sono sempre legati alla pubblicità, al giornalismo, all'editoria, è probabile che ci possa essere qualcuno che ha composto qualche capolavoro ma non riusciamo a scoprirlo. E neanche i critici sono in grado di accorgersene, proprio perché i libri sono troppi. Io leggo, oltre i testi di cui più si parla, anche quelli di persone che conosco. Adesso è uscito, per esempio, un libro di Antonio Scurati, un autore che apprezzo abbastanza e, di conseguenza, lo leggo, sebbene io noti in questo libro qualche eccessiva asprezza... Io da molti anni parlo dell'angoscia della quantità. I libri sono talmente tanti che nessuno è in grado di avere un quadro complessivo; magari c'è qualche autore sconosciuto di altissimo livello che resta completamente sconosciuto. Alfieri aveva scritto "Della virtù sconosciuta" parlando di un suo amico -grandissimo-, ma di cui nessuno poteva aver avuto mai notizia.

D. D'altronde, se pensiamo che Kafka è morto quasi inedito, che André Gide bocciò Proust, Vittorini "Il Gattopardo" e che Botta vinse un premio al posto di Leopardi...

R. Sì, appunto, certe cose si ripetono puntuali e demoralizzanti nel tempo. Solo che adesso la moltiplicazione dei testi è ancora più forte di allora (mi riferisco agli anni dell'Alfieri): e ciò rende tutto più difficile. Certi grandi autori del passato, che non hanno avuto in vita alcun successo, nessuna presenza, per fortuna sono venuti fuori dopo. Prima si poteva guardare alla posterità; oggi molto meno o non più. Questo lo aveva intuito già Leopardi. Diceva che non ha più senso pensare alla posterità non solo per la Letteratura, ma per ogni forma culturale o scientifica. Leopardi arrivava a dire, paradossalmente, che era comunque meglio sottoporsi al giudizio degli antichi. Ma siccome ciò è impossibile, è altrettanto paradossale affidare la propria gloria virtuale ai posteri. Nel caos universale in cui siamo, il concetto di "posterità" non ha più senso. Anche perché c'è pure il pericolo che il mondo non sopravviva per tanto.

D. Siamo entrati dentro un problema scottante, di cui l'informazione cartacea ed elettronica ama poco parlare. Avevo tenuto una domanda di riserva, che lei però ha fortunatamente toccato. Posso rivolgergliela?

R. Certamente.

D. Il surriscaldamento globale e altri accidenti di cui si parla poco (la gente ama più ascoltare le notizie di cronaca nera che l'informazione sull'agonia del pianeta Terra), rendono i posteri una specie in via di estinzione. Che senso ha più scrivere per i posteri, rinunciando -per tutto quello che abbiamo trattato prima - al comodo successo immediato che porta onori e soldi?

R. È una domanda che accetto in pieno. In ultima analisi (questo lo dice anche Proust) tutte le grandi opere, i grandi impegni in cui è presa l'umanità, sono destinati a dissolversi perché dal punto di vista della dialettica della natura, il mondo prima o poi finirà. La società umana è un'escrescenza improvvisa alla quale, però, diamo per forza di cose troppa importanza.

Per la rubrica Pepite - Numero 106 novembre 2011