Vivavoce - Rivista d'area dei Castelli Romani

RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Pepite

L'arte di scrivere

Intervista a Paolo di Paolo

Paolo tu hai ventisette anni. Il tuo primo libro è Nuovi cieli, Nuove carte, una raccolta di racconti finalista al premio Italo Calvino, pubblicata nel 2004 dalla casa editrice Empiria. Cosa ricordi di quell'esperienza, com'era nata e cosa rimane oggi, dopo sei anni?
È il rapporto che forse tutti gli scrittori hanno con il primo libro: lo stupore di qualcosa che era inconcludente, come i sogni, poi diventa invece materiale, come carta e inchiosto. È un libro che naturalmente poteva avere una storia minima, ma aveva una storia. Nasceva da un periodo di libertà estrema, l'estate dopo la maturità, il periodo più libero fisicamente, mentalmente che forse ho avuto negli ultimi anni, nel senso che c'era un futuro che si apriva in un modo poi molto, molto libero e superfluo davanti a me. Quindi in quell'estate ho scritto. Il libro è stato spedito poi a un premio importante, il Premio Calvino, per inediti, che ha schiuso la possibilità della pubblicazione. Il rapporto, dicevo, è quello che tutti gli scrittori hanno con i primi libri, e cioè un rapporto di tenerezza e anche un po' di rabbia, perchè senti che dentro a quel libro c'è tutto quello che tu sei in grado di fare, tutto, tanto non farai mai niente nella scrittura che non sia già in qualche modo nel primo libro. Questo lo dice anche Calvino che, quando torna sul Sentiero dei nidi di ragno, in una prefazione molto bella che mette in un'edizione successiva alla prima, dice: ma forse bisognerebbe scrivere solo il primo libro. Invece ci sono alcuni scrittori che dicono che bisognerebbe scrivere solo l'ultimo, come deposito dell'esperienza. Ma Calvino dice che bisognerrebbe scrivere solo il primo, perchè soltanto nel primo tu rompi il muro del silenzio. E rompendo il muro del silenzio dici tutto quello che hai da dire, anche se non te ne accorgi. È come se tutti i libri fossero già scritti nel primo, anche se non te ne rendi conto. E quindi la tenerezza e la rabbia. La tenerezza per un Io immaturo e ingenuo che contiene già dei barlumi degli Io futuri. La rabbia perchè senti che è nel conflitto con quell'Io che sta nel primo libro, che tu scrivi i libri successivi, anche migliori, più belli o più riusciti. Quindi senti, nel tuo primo libro, la forza e nello stesso tempo il limite del tuo fare scrittura. E se penso a tutti i libri che sono stati scritti dopo, beh là dentro veramente avevo già detto un po' tutto; ci sono tutti quei nodi contenutistici di ossessioni, di domande, di riflessioni che comunque ho sempre portato avanti. È un libro sulla memoria, su quello che perdiamo, sulla nostalgia, sulle cose che passano. E la scrittura gira intorno a questo, gira intorno alle cose che si perdono e che, se pure andando avanti acquistiamo qualcosa in termini di sentimento, di esperienza, perdiamo comunque altrettanto. Ed è in questo rapporto tra acquistare e perdere che si gioca tutto quello che io scrivo.


La passione dello scrivere, quando è nata in te? Come?
È nata molto presto la passione per la lettura, in un modo assolutamente casuale, perchè sono nato in una famiglia in cui c'erano soltanto libri specialistici. Mia madre comunque m'ha sottopposto molto presto dei libri illustrati, colorati e moltissimi giornali di fumetti. Ho cominciato in assoluto come persona che voleva disegnare, poi il disegno s'è portato dietro delle storie. L'idea materiale della scrittura comunque mi ha sempre molto attratto. E ricordo, anche se in effetti non aveva senso tutto questo...che scrivacciavo sulle agende paterne delle pseudo storie, o comunque delle copertine per i libri che avrei scritto. (Ridiamo) La passione per la scrittura è nata lì. Forse si è portata dietro una passione forte per la teatralità, perchè comunque prima di iniziare a scrivere ho amato molto il teatro, almeno come idea, non come prassi - non sono stato un grande spettatore di teatro. L'ho letto tanto e soprattutto mi piaceva molto la parola scritta che veniva restituita alla funzione originaria, quella della voce. Quindi credo che sia venuto prima il fumetto, il teatro e poi la scrittura. C'è anche un altro passaggio, la scrittura sui giornali locali dei Castelli Romani nel periodo dell'adolescenza, che mi ha fatto capire che non ero portato per il giornalismo puro e che mi interessava fare l'autore di libri di invenzione, insomma, di libri in cui l'immaginazione entra molto in gioco.
In Raccontami la notte in cui sono nato ho accennato a quell'esperienza giornalistica. Il protagonista, che poi è un alter ego, si chiama Lucien come il Lucien de Rubempré delle Illusioni Perdute di Balzac (un ragazzo con il sogno della scrittura che arriva a Parigi dalla campagna, e nella capitale francese si accorge di avere soltanto illusioni). Il mio protagonista comincia a scrivere di cronaca nera e la mano praticamente gli viene portata lontano, perchè non si mette a fare il vero referto, ma fa qualcos'altro, fa la poesia sul fatto giornalistico. E così io stesso ho capito che mi interessava di più, anche partendo da un dato di verità, la trasfigurazione letteraria, l'aspetto emotivo.


La tua conoscenza della letteratura è molto ampia, anche della letteratura italiana. Quali sono gli autori italiani cui ti senti più legato, e perchè?
Sono legato, in assoluto, alla letteratura italiana in quanto lingua. Non penso che sia possibile, per una persona che scrive, non sentire come vera patria la propria lingua. Tu puoi essere anche molto distante dalla cultura del tuo paese, perchè te ne sei inventata un'altra, hai fatto della tua cultura un misto di culture in quanto a esperienze, a visioni, visite e viaggi - anche solo mentali - e ti senti distante magari da certe cose che appartengono alla tua terra. Nel momento, però, in cui tu non adoperi come lingua una madre lingua - espressione bellissima, tra le più belle, una lingua che ti è stata consegnata all'atto di nascita - non esiste la scrittura. Conosco tantissimi scrittori che non stanno in Italia e continuano a scrivere in italiano, o viceversa scrittori stranieri che sono qui e continuano a scrivere nella loro lingua. È chiaro che il rapporto con altri contesti ti influenza, ma sento che il mio rapporto con la letteraura italiana passa prevalentemente per la lingua che di questa letteratura è origine. Tutto quello che esprimo, che sento e può essere anche distante e contraddittorio rispetto alle mie origini, lo esprimo però in italiano. Per quanto possa conoscere un'altra lingua, potrò parlarla, innamorarmi in un altra lingua, usarla come lingua di lavoro, usarla a qualunque livello, ma non a livello della scrittura narrativa, che aspira a essere conoscitiva, di relazione con l'intimità. Tu lavori con la lingua più intima che è la tua madre lingua. Quindi non esiste niente per me che non sia tradotto in italiano, tradotto senza esserlo; è il mio pensiero che si traduce in italiano. Non potrei prescindere dal fatto che prima di me, non in senso di graduatoria gerarchica - che è idiota come discorso! - ma proprio nel senso di movimento e musica della lingua, ci sono Dante, Petrarca, Ariosto, Boccaccio, fino agli scrittori contemporanei. Dentro questo tessuto della letteratura è emozionante ogni volta leggere un verso di Dante che dice: del bel paese dove 'l sì suona, e questo già ti fa sentire un rapporto con la lingua che è costitutivo del fare scrittura, sentirla come musica. Oppure leggo la lingua delle Operette Morali di Leopardi e sento che quella è la mia lingua, che ha una geometria linguistica precisa che m'appartiene - anche nel momento in cui non riesco magari a riconoscere certi tratti di opacità, a tradurli veramente fino in fondo. Una lingua del Duecento, del Trecento suona in un certo modo come suona la mia, o comunque mi rimanda costantemente alla mia, in un senso che è di sorpresa, di calore, di entusiasmo che si rinnova ogni volta che entro in contatto con un testo antico. Sicuramente il rapporto con la tradizione letteraria in assoluto è fondamentale, dentro questa tradizione - senza fare i nomi di libri fondativi del mio sistema linguistico, verso cui è naturale io abbia un debito anche solo emotivo - mi sento molto vicino, sia per gestione della lingua che dei contenuti, a Leopardi. Una posticcia e abbastanza riduttiva visione del leopardismo scolastico lo fa passare per un autore pessimista e chiuso dentro una categoria. Le Operette Morali sono un'opera straordinaria e fondamentale, un'opera di filosofia, saggistica, un pamphlet in certi punti, un dialoghetto filosofico...C'è qualcosa, dentro, che fa capire come la lingua di Leopardi sia la stessa lingua della prosa moderna e contemporanea italiana. Poi, anche la poesia italiana tra Ottocento e Novecento mi ha molto influenzato: anche se non ho mai scritto poesie e sono certo che non ne scriverò mai, l'ho letta molto e il sistema lirico di ciò che scrivo molto deriva dalla tradizione poetica di Otto e Novecento italiana. Tra gli scrittori contemporanei il rapporto privilegiato è con Antonio Tabucchi, scrittore cosmopolita; Requiem l'ha scritto direttamente in portoghese. Vive molto Parigi, la Grecia, si è creato una sua identità europea, però ha scritto tutto il resto della sua opera in italiano. Il modo con cui Tabucchi vive la liquidità della prosa, una sua tensione lirica dei racconti o dei romanzi, questo mi ha molto influenzato.


E gli autori stranieri?
Leggo moltissima letteratura straniera; ho molto interesse per quello che sta succedendo nella narrativa internazionale nel rapporto della scrittura con esperienze vissute o con altre forme di espressione visiva, come la fotografia. Al momento quello che m'attrae moltissimo sono scrittori che hanno fatto del rapporto con il vissuto la loro chiave di indagine dell'esperienza umana. Poi, vedi, si parla male dei Nobel, però penso ad Herta Muller, che da noi era praticamente sconosciuta, o Coetzee, Le Clèzio, Pamuk, scrittori che partono proprio dall'esperienza. Questo tipo di inventiva che si fonda sulla riformulazione dell'esperienza propria, in rapporto molto con la fotografia, con l'immagine. Uno scrittore che mi ha colpito molto è Sebald, scrittore tedesco morto nel 2001 in un incidente stradale, autore di un libro bellissimo, Austerlitz, ma anche di Gli anelli di Saturno, dove c'è questo elemento fotografico che non è illustrativo, è come se fosse un testo nel testo, fatto di fotografie anche assolutamente non rappresentative: uno scontrino sul tavolo, un impronta di una mano, un riflesso di un ombra. Non una scrittura fotografica che illustra, ma che copre le lacune di un testo: come se quel testo chiedesse aiuto alla fotografia. Questo era già presente in esperienze del Novecento come Nadja di Breton, o in quel che scrive Roland Barthes nella Camera Chiara. Mi piace ciò che agira l'ostacolo dell'intrattenimento e del romanzo. Non per mia presa di posizione snobbistica, ma mi interessa di più il racconto dell'interstizio piuttosto che un macro racconto già usurato dall'immaginario televisivo o cinematografico. "Scritture del margine": credo sia un'espressione che le definisca bene. Scritture di piccoli libri, libri interstiziali. Perchè il vissuto? Perchè è un aspetto talmente sottile che può essere autenticato molto di più in una società come questa, rispetto a un racconto che vuole essere onnicompensivo, dal grande respiro. Il respiro corto del racconto del vissuto, in qualche modo, è una professione di autenticità. Ti racconto quello che m'è accaduto non perchè voglio esibirlo, ma perchè so che è una garanzia di autenticità.
Un libro straordinario, che mi ha colpito negli ultimi tempi, è L'amico e lo straniero di Uwe Timm, scrittore tedesco contemporaneo che ha voluto fare un'indagine su un amico di cui aveva perso le tracce. Un giorno vede sul giornale una fotografia che attiene agli anni delle contestazione studentesca del 1967, ad Amburgo. La foto bellissima (e divenuta copertina del libro) mostra il corpo di un ragazzo morto sulle barricate, sorretto da una giovane donna che lo tiene tra le braccia. La scena ricorda, nel movimento, nella posizione, La Pietà. Questo ragazzo, tra l'altro, è davvero passato alla storia come uno dei primi studenti uccisi durante le contestazioni. Guardando la foto lo scrittore lo riconosce: questo è l'amico con cui avevo condiviso parte del mio percorso universitario, poi ci eravamo persi di vista! Si intitola l'amico e lo straniero perchè lui si mette a fare un'indagine sulle tracce di questa persona, cercando di capire ciò che non aveva capito quando lo aveva avuto accanto - per esempio l'impegno politico, di cui non avevano mai discusso insieme. Come a dire quanto ci resta opaco e inattingibile delle persone che abbiamo accanto e che ci sembra di conoscere di più. L'amico e, quindi, lo straniero. Anche nel rapporto d'amicizia c'era qualcosa che veniva tagliata via, che lui teneva per sè.
Altro libro fondamentale è Molto forte, incredibilmente vicino di Johnatan Safran Foer, autore di Ogni cosa è illuminata, scrittore geniale, che ha inventato un modo di raccontare. Il libro che ho amato di più è il secondo che va a raccontare l'undici settembre, non nella chiave in cui hanno raccontato tanti e hanno fallito, perchè hanno raccontato qualcosa che è dominio e possesso di tutti per via dell'immaginario televisivo. Tutti crediamo di essere stati lì, ma nessuno potrebbe raccontarlo, è un po' il gioco dei sommersi e dei salvati, solo i sommersi potrebbero raccontarlo veramente. Noi abbiamo visto una geometria mediatica di quel fatto, qualcosa che era angosciante, affascinante, drammatico, terribile di cui abbiamo sentito telefonate, messaggi sulle segreterie telefoniche...ma se io mi mettessi qui a raccontare l'undici settembre cadrei assolutamente nell'inautentico, cioè nella volontà di simulare qualcosa che comunque attiene ad un'esperienza collettiva, ma che solo supeficialmente è davvero un'esperienza collettiva. Safran Foer ha aggirato l'ostacolo raccontando una storia inventata, che potrebbe essere assolutamente attendibile, di un bambino di undici anni che perde il padre in una delle due torri. Se l'avesse raccontata con i mezzi del romanzo tradizionale sarebbe diventato un romanzo assolutamente patetico. Invece inventa un ragazzino un po' genietto, che c'ha sempre una testa un ppo' in movimento, che cerca di difendere la madre dal dolore di ascoltare la voce del marito registrata sulla segreteria telefonica. Quindi parte da un dato di realtà che è quello; l'abbiamo sentito tutti le voci registrate come erano concitate, come erano agitate, come erano estreme. È la tua voce della fine, quindi consegni qualcosa che è tutto di te nel momento in cui sei di fronte alla morte certa. Lui ascolta il messaggio nella segreteria telefonica e cerca di non far sapere alla madre che quella voce è rimasta registrata lì. E tutto il libro è giocato su questo, su un bambino che cerca di difendere da un dolore troppo forte un adulto, che in teoria dovrebbe essere più forte di lui. Libro straordinario perchè dentro ci sono disegni, fotografie, una scrittura mirabolante, pirotecnica, un'invenzione continua del linguaggio. Però va sempre in quella direzione lì, dei libri interstiziali. Racconta uno spazio di realtà minimo, qualcosa di cui anche io posso fare esperienza emotiva, cioè l'idea di sentire la voce di qualcuno alla segreteria telefonica, di qualcuno che conoscevo bene e che non vedrò più. Quella voce lì mi si consegna come voce estrema. E quindi in qualche modo io sono autorizzato a raccontarla, a raccontare il piccolo anzichè il macroscopico. Questi due esempi di libri secondo me vanno molto in una dimensione di ricerca della scrittura contemporanea internazionale.

(segue nel prossimo numero)

 


BIOGRAFIA
Paolo di Paolo è nato a Roma nel 1983. La raccolta di racconti Nuovi cieli, nuove carte (Empìria 2004) è stata finalista al Premio Calvino. E' autore di libri intervista: Un piccolo grande novecento (Manni, 2005) con Antonio Debenedetti, Ho sognato una stazione. Gli affetti, i valori, le passioni (Laterza 2005) con Dacia Maraini, Risalire il vento (Liason, 2008) con Raffaele La Capria, Queste voci queste stanze (Emp'ria 2008) con Elio Pecora. Come romanzi ha pubblicato Raccontami la notte in cui sono nato (Perrone, 2008) e Questa lontananza così vicina (Perrone, 2009).

Per la rubrica Pepite - Numero 95 ottobre 2010