Vivavoce - Rivista d'area dei Castelli Romani

RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Cibo per la mente

Ad una donna, tra due mondi incappata, che rivelò il segreto senza dirlo.

Il 18 agosto si è spenta a Milano Fernanda Pivano, all'età di 92 anni.
E' difficile parlare di una persona che ai miei occhi è sempre apparsa speciale e amica, a cui mi sono affezionata senza averci mai parlato. Ero quindicenne e qualche giorno dopo aver detto qualcosa ai miei genitori sulla beat generation, mio padre e mia madre tornarono a casa con una raccolta di poesie di Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Allen Ginsberg in una edizione a cura di Fernanda Pivano. "Poesie degli ultimi americani".
"Chì è?" ricordo di aver chiesto.
"Fernanda Pivano..."
Non ricordo cosa disse mio padre, ma il significato era: è così conosciuta per quello che ha fatto!
Forse anche a lui è sempre sembrata una persona familiare.
Era un'espressione da cui capii che doveva essere importante questa Fernanda Pivano.
Così, leggendo quel libro ed altri, non solo venni a sapere che aveva tradotto i più grandi scrittori americani del Novecento, ma anche che era lei ad averli portati in Italia. Aveva ascoltato le loro parole ed era stata a contatto con quelle persone, gli autori americani; ne aveva a volte scoperto le opere, perché ne intuiva il potenziale. Quelle opere esistevano ora anche in una versione alla quale tutti noi potevamo accedere, cercando tra gli scaffali di una libreria vicino casa, come fosse una nuova scoperta dell'America in casa nostra, ma più democratica e senza violenze al seguito.

Sulla copertina del libro che mi regalarono i miei genitori c'è una foto di Jack Kerouac poggiato ad un muro mentre aspira una boccata di sigaretta; l'inquadratura è a tre quarti e lui sembra non accorgersi che qualcuno sia lì a fotografarlo, e chissà, forse davvero non lo sapeva.

Mi informai su di lei nel corso degli anni. Non solo aveva tradotto le opere dei grandi scrittori americani, ma aveva vissuto con loro, instaurandovi spesso un profondo rapporto. Come la luce si rifrange in un prisma ed è difficile stabilire se sia più bella la luce o la rifrazione che da essa si genera, si riconosce poi che la bellezza è nel nesso, nella relazione tra una cosa e l'altra, nella rinascita dei colori. Così la traduzione non è solo trasporre, ma anche mettere insieme dei significati diversi e, per Fernanda, delle vite.

Quando avevo circa diciotto anni uscì un film, lo proiettavano al Politecnico Fandango. Un mio amico mi invitò, era un film su Fernanda. Non sugli scrittori che lei aveva conosciuto e che erano noti in tutto il mondo. Un film su di lei.
Fu molto bello. E ricordo bene una sua frase che mi colpì, per ricchezza e semplicità. "Vorrei aver scritto qualche parola che la gente ricordi". Queste parole mi sono rimaste impresse.

Nella ricchezza e nella semplicità Fernanda Pivano sapeva trasportarti nel luogo dove le parole di uno scrittore e un poeta fanno colpo.
Ascoltare il racconto delle emozioni che una frase aveva suscitato in lei era come trovarsi nel punto esatto in cui le parole producono quell'effetto interiore che, solo quando leggiamo in solitudine, si riesce a sperimentare del tutto.

Negli ultimi tempi Fernanda era stata impegnata nella scrittura della sua autobiografia. Più di un mese prima di morire aveva consegnato all'editore la seconda parte dei suoi diari. La prima parte è stata pubblicata da Bompiani nel maggio 2008 con il titolo di Diari 1917.1973.
L'opera sembra davvero un diario, a partire dalla forma: le pagine sono piccole e molte per cui nell'insieme il libro risulta spesso; ci sono i fermapagine e al posto dell'introduzione si trovano brevi scritti, uno del presidente della casa editrice Alfred A. Knopf e gli altri di tre autori americani contemporanei che l'hanno conosciuta e che Fernanda ha contribuito a rendere noti in Italia.
Questo dà un ulteriore tocco di vitalità al libro, trasformandolo definitivamente in diario. Le pagine scritte da Erica Jong, Bret Easton Ellis e Jay McInerney, riconoscenti e piene di stima, hanno la forza di affettuose dediche scarabocchiate su un diario nel quale l'amica scrittrice possa fermare pensieri e ricordi.
Queste dediche sembrano dire: "E adesso raccontaci di te, tu che hai contribuito a far girare i nostri racconti in una parte di mondo, raccontaci del tuo mondo." E che Fernanda prenda la cosa serenamente e seriamente, oltre che, come le era solito, in modo appassionato. E, come se ci fosse di fronte un lungo e caldo pomeriggio di metà estate quando tutto è lento e pare fermo, l'inizio della risposta di Fernanda cominci dai suoi primi ricordi: l'infanzia a Genova, il balcone della nonna e la libreria del nonno scozzese, la scuola svizzera e il pianoforte.

Questi diari raccolgono l'eredità di una coscienza e di una esperienza in una scrittura avvolgente che racchiude un ciclo di vita. Se si ha il coraggio e la capacità di divenire una voce si può continuare a mantenere vivo, in un qualche modo, il dialogo con gli altri, anche quando si è scomparsi.

La parte finale dell'opera è una breve intervista di Enrico Rotelli a Fernanda. Nell'intervista Rotelli le chiede qual è il viaggio che ricorda con più nostalgia. Ecco cosa risponde Fernanda: "Etai: la piccola isola nelle Fiji dove di notte ho letto Shakespeare sulla sabbia bianca, al chiaro di luna...".

 


Fernanda Pivano (introduzione). Poesie degli ultimi Americani. Milano, Feltrinelli, 1995.
Fernanda Pivano. Diari 1917-1973. Bompiani 2008

 


 

Per la rubrica Cibo per la mente - Numero 85 ottobre 2009