Vivavoce - Rivista d'area dei Castelli Romani

RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Biblioteca di Trimalcione

Il finale perduto di turandot…

In cucina con Giacomo Puccini

Nel 2008 si è celebrato il centocinquantesimo anniversario della nascita del grande compositore Giacomo Puccini (Lucca 1858-Bruxelles 1924), annoverato fra i più importanti operisti italiani. Il giornalista Stefano Cecchi, inviato del quotidiano "La Nazione", nel suo ultimo romanzo "Qui muore Puccini" rende omaggio all'uomo e all'artista ripercorrendo episodi di vita relativi all'ultimo soggiorno del musicista nel suo rifugio sul lago Massaciuccoli. Fin dal 1891 infatti, Puccini si era trasferito stabilmente a Torre del Lago a pochi chilometri da Viareggio, dapprima in alcune case prese in affitto e quindi successivamente, nel 1900, nella villa fatta costruire con i primi profitti "musicali". A questo luogo magico Puccini resterà legato in maniera particolare per tutta la sua esistenza: in una lettera indirizzata all'amico lucchese Alfredo Caselli, inserita nella raccolta curata da Eugenio Gara "Carteggi Pucciniani", definirà infatti Torre del Lago con le parole <<Gaudio supremo, paradiso, eden, empireo "turris eburnea", "vas spirituale", reggia>>. In questa oasi di tranquillità, lontano dagli affanni del mondo, il compositore trascorreva le sue giornate coltivando con impegno numerose passioni: la musica, le battute di caccia - condotte scivolando col barchino lungo i fossi del padule, tra i falaschi ed i giunchigli che circondano il Massaciuccoli, rifugio di numerosissime specie di uccelli (beccaccini, folaghe, porciglioni, sghiribille, pappardelle, etc.) - le automobili, le "avventure galanti" e le riunioni conviviali con gli amici.

Fu perfino fondato un circolo, denominato "Club La Bohème", che aveva sede in una casetta di legno col tetto di paglia situata nei pressi della sua casa. Il circolo era frequentato oltre che dallo stesso Puccini, da numerosi soci di diversa provenienza territoriale e sociale (pittori, musicisti, scrittori ma anche cacciatori, pescatori e contadini); secondo il regolamento dell'associazione gli adepti erano tenuti, tra le altre cose, a "giurare di bere bene e mangiare meglio", escludendo tassativamente la frequentazione di "ammusoniti, pedanti, stomachi deboli, poveri di spirito, schizzinosi e altri disgraziati del genere"; inoltre era vietato il silenzio, severamente proibiti tutti i giochi leciti, e "la saggezza non ammessa neppure in via eccezionale".* Puccini fu dunque anche un appassionato gastronomo che prediligeva naturalmente la cucina autoctona, i piatti tipici toscani, con una particolare propensione per la cacciagione. Nel 1921 tuttavia, il musicista fu costretto ad abbandonare l'amata dimora di Torre del Lago e a trasferirsi in una nuova villa a Viareggio, a causa dei rumori e delle esalazioni emanati da una torbiera installata nei pressi della sua abitazione. Il romanzo ricostruisce per l'appunto l'ultimo soggiorno dell'artista nella villa sul lago, il luogo ove egli compose la maggior parte delle sue opere: Manon Lescaut, La Bohème, Tosca, Madama Butterflay, La fanciulla del West, La rondine e il Trittico. Fondendo elementi reali e di fantasia, Cecchi ci introduce a poco a poco nel mondo del compositore, nella sua quotidianità, fatta di luoghi, incontri, passioni ed antiche amicizie. E' un Puccini tormentato quello che traspare dalle pagine del racconto, sofferente nel corpo e nell'anima: afflitto da una tonsillite che dura ormai da mesi e alla ricerca spasmodica dell'ispirazione per il finale di quella che sarà la sua ultima opera - "Turandot" - tratta dall'omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi, rappresentata per la prima volta a Venezia nel 1762. E nella sua amata Torre del Lago, ancora una volta si compie il "miracolo", perché "il lago canta" "il lago suona, basta saperlo ascoltare", ed è pronto a svelargli una sinfonia segreta, mai ascoltata. Dopo un lungo travaglio, il terzo atto della Turandot vede finalmente la luce. E mentre sfreccia, a bordo della sua Lancia Lambda, sulla strada sterrata in direzione di Viareggio, Puccini già pregusta la gioia di poter comunicare la buona notizia al suo amico Arturo Toscanini. Ma "solo in teatro e nel melodramma le tragedie, per compiersi, hanno bisogno di cieli plumbei e tempeste" e il compositore morirà nel novembre del 1924 in una clinica di Bruxelles, per i postumi di un intervento chirurgico subito per l'asportazione di un tumore alla gola. Due anni dopo, il 25 aprile del 1926, al Teatro alla Scala di Milano Arturo Toscanini dirigerà la "Prima" della Turandot; in omaggio all'amico Puccini, interrompendo lo svolgimento dell'opera alla metà del terzo atto (Aria di Liù) e rivolgendosi al pubblico, egli pronuncerà le parole: "Qui finisce l'opera, perché a questo punto il Maestro è morto. La morte in questo caso è stata più forte dell'arte", concludendo la rappresentazione senza un finale, così come l'aveva lasciata incompleta il maestro. L'opera verrà eseguita integralmente la sera successiva con il finale di Franco Alfano, ma Arturo Toscanini sapeva benissimo che la parte conclusiva della Turandot era stata scritta, glielo aveva confidato lo stesso Puccini. Quale segreto si cela dietro l'inspiegabile sparizione dello spartito? Forse come nella favola di Turandot, per giungere alla verità, è necessario sciogliere un enigma, quello della scomparsa di una studentessa diciannovenne ospitata in una notte di pioggia in casa Puccini...o quello del brutale omicidio, probabilmente di matrice politica, avvenuto sull'Aurelia presso un posto di blocco presidiato dai miliziani. In una Toscana dilaniata dai conflitti tra sostenitori e avversari del nuovo regime, il Maresciallo Risaliti è chiamato a risolvere un inquietante mistero e la spirale di violenza, innescata dalla morte di un innocente, inghiottirà nel suo vortice altre esistenze, talune vittime di un destino ineluttabile, altre schiacciate dal peso di un rimorso che non conosce assoluzione. Solo il finale del romanzo dispiega al lettore la verità, custodita nelle profondità di un lago insieme allo spartito perduto di Puccini.


[...] Da qualche settimana era venuto a vivere sul Massaciuccoli. Si era costruito un villino proprio in faccia al lago, quando non erano ancora arrivate le Torbiere d'Italia e gli operai a rompere la pace del posto. I primi successi in teatro lo avevano reso famoso, ma non ci fu stupore da parte mia di trovarmelo lì, in caserma. Quello che mi meravigliò, casomai, fu la sua affabilità. La bonomia spontanea. Quel giorno, per rinnovare la licenza di caccia, arrivò con una scintillante De Dion Bouton 5 HP** e un fiasco di vino: "Caro maresciallo, se non vi offendete vorrei brindare alla mia presenza stabile in quel di Tordellago, mia nuova patria. Da oggi sono un vostro suddito. Brindiamo, ovviamente, anche alle centurie di folaghe e alle legioni di beccaccini che sterminerò complice voi e la licenza di caccia che mi farete avere. Prosit". Quando, dopo 15 giorni, arrivarono da Lucca i permessi di caccia vidimati, glieli portai personalmente al villino sul lago. Lo facevo con tutti in paese, perché non avrei dovuto farlo con lui? Fu in quell'occasione, mentre la moglie, intenta a far da mangiare, strillava non so che dalla cucina, che mi mise un braccio intorno alle spalle e mi trascinò nel suo giardino pieno di palme, di piante strane e vialetti irregolari: "Lasciatela urlare. Can che abbaia 'un morde. Lasciamola in cucina a creare capolavori. Lo sentite vero il profumino? Fagioli al fiasco. Voi lo sapete, vero maresciallo, come si cucinano i fagioli al fiasco?". Lo sapevo eccome. Una delle cose che mi riempie la vita è proprio mangiare e far da mangiare. Ma potevo esimermi dal dargli la soddisfazione di raccontarmelo? "Allora, prima di tutto bisogna lasciare i fagioli in ammollo la sera precedente. Poi, in un fiasco di terracotta, bisogna metterci dell'olio bono, spicchi d'aglio, foglie di salvia e una barcata d'acqua da affogare i fagioli. Quando il fiasco gli è chiuso, va adagiato sulla brace. State attento, mi raccomando, che il liquido 'un bolla mai. Sei ore così, poi servite i fagioli conditi con una cascata di olio e pepe nero macinato. Ca-po-la-vo-ro!". Mi guardava come chi ti mette a conoscenza dei misteri dell'Apocalisse. Diobono, non ce la feci ad esimermi. "Ma l'aglio lo mettete in camicia o ignudo?". "L'aglio?". Ebbe come un moto di inusitata sorpresa. Mi guardò con curiosità raddoppiata. Occhi fainici. Poi, scuotendo le spalle: "Ignudo come madre natura, dioboffice! O come li fate voi?"[...]

 

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Note

* Mosco Carner, Giacomo Puccini : biografia critica, Milano, il Saggiatore, 1961

**: Si tratta della prima automobile acquistata da Giacomo Puccini dopo la visita all'Esposizione di Milano del 1901. Appassionato di motori, il compositore divenne nel tempo proprietario di numerose vetture, tutte inadatte tuttavia per essere impiegate nelle sue amate battute di caccia; per questo commissionò a Vincenzo Lancia la costruzione di un veicolo in grado di muoversi anche su terreni particolarmente accidentati: il primo "fuoristrada" italiano.

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Fagioli al fiasco
Ingredienti per 6 persone:
Un fiasco di terracotta;
500 g di fagioli secchi (bianchi o toscani);
6 foglie di salvia;
3 spicchi di aglio (in camicia se volete ottenere un sapore più delicato, privo della buccia se preferite un gusto più deciso);
olio extravergine di oliva; sale; pepe nero.

Introducete all'interno del fiasco i fagioli (tenuti in ammollo in acqua dalla sera precedente), l'aglio, la salvia, mezzo bicchiere di olio d'oliva e acqua fino a riempire il recipiente per circa i ¾ (comunque fino a ricoprire completamente i fagioli). Tappare il fiasco con un tappo di terracotta o con della carta per alimenti oppure con della stoppa (in modo tuttavia che possa fuoriuscire il vapore) e ponetelo inclinato, legandolo con una cordicella, sulla brace, controllando che la cenere intorno al fiasco rimanga sempre calda. La cottura deve protrarsi per circa 5-6 ore facendo attenzione che il liquido non raggiunga mai la temperatura di ebollizione. Ultimata la cottura, quando l'acqua sarà completamente evaporata e l'olio assorbito dai fagioli, condite i legumi con olio, sale e pepe nero macinato.

 

Allergico ai troppi convenevoli e alla troppa folla, nel testo di Cecchi Puccini è costretto, suo malgrado, a prendere parte al pranzo organizzato da don Venanzio nella canonica di Torre del Lago in occasione dell'inaugurazione del nuovo campanile della chiesa... Proprio in questa occasione assaporerà i crostini della Ines...
[...] "Ma i crostini di milza li avete provati?". "Come no! Ora, ora". "Buoni vero? Non per dire, ma mia moglie è insuperabile. In-su-pera-bi-le. Diglielo il segreto al maestro, Ines. A lui si può, ovvia ...". "No, lasciate perdere! Le donne, lo sapete, son gelose dei loro segreti ...". "Ma che state scherzando davvero? A voi un segreto? Ma per carità ... Ines, vien qua, spiegaglielo al maestro come li fai i crostini. Spiegaglielo, forza". Tentativo respinto. Con perdite. E allora, a Dio piacendo, mettersi tranquilli e sentirla, questa ricetta dei crostini insuperabili della moglie del sindaco. Forza Ines: "Maestro, sono emozionata, sapete ...". "Oh, venite via su". "Scusatemi ma l'emozione, sapete ... ecco ... Allora, voi dovete prendere della cipolla, la tritate per benino ... ". Ines, che nonostante il nome da ninfa portava con sé ottanta chili abbondanti di benessere, sembrava essere laterale al genere femminile. Comunque estranea nelle variabili fondamentali. O forse i crostini di milza non dovevano avere un segreto particolare. Al compositore, seduto a un tavolo d'angolo per provare a sfuggire al caos, la donna confidava la ricetta del paté senza reticenza: "... la cipolla dovete indorarla per benino, senza furia ..." [...] "... dopo la cipolla non ci mettete troppi capperi che se no i crostini diventan amari ..." [...]

 

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Crostini con milza di vitello
Ingredienti (per 6 persone):
crostini di pane, (in alternativa tostare del pane toscano o senza sale);
1 milza di vitello (se si preferisce si possono usare anche dei fegatini);
brodo;
acciughe sotto sale;
capperi;
½ bicchiere di vino bianco secco;
1 cipolla;
1 foglia di alloro;
burro; olio; sale; pepe.

Dopo avere spellato la milza, fatela cuocere in un tegame con un po'di olio, una noce di burro, il trito di cipolla e l'alloro; a cottura ultimata sminuzzatela con una mezzaluna. Quindi rimettetela sul fuoco per pochi minuti aggiungendo dell'altro olio, del burro e per ultimo il vino. Evaporato quest'ultimo, aggiungete le alici (dissalate e private della lisca) ed i capperi entrambi tritati e ben amalgamati. Fate ancora cuocere aggiungendo qualche cucchiaiata di brodo fino ad ottenere la consistenza di una crema. Spalmate il composto sui crostini e servite.

 

(I brani riportati in corsivo sono tratti dal testo di Stefano Cecchi, Qui muore Puccini : il finale perduto di Turandot, Viterbo, Stampa alternativa/Nuovi equilibri, 2008)