Vivavoce - Rivista d'area dei Castelli Romani

RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Folklore

Le tradizioni di Pasqua tra folklore e superstizione

Uova, ortiche e miele per il giovedì dei Sepolcri, ciambelle salate per il venerdì Santo, violette per la domenica

Le erbe medicinali raccolte nella Settimana Santa avrebbero avuto maggior efficacia, mentre un vestito tagliato e cucito la domenica di Pasqua avrebbe fatto cadere in acqua chi lo indossava. Un tempo le tradizioni e le superstizioni legate a questa festività erano davvero molte, e riguardavano anche gli aspetti più minuti della vita quotidiana.
Secondo una tradizione assai diffusa, ad esempio, le uova deposte il giovedì dei Sepolcri proteggevano dai fulmini, mentre le ortiche raccolte in questo giorno assicuravano salute e benessere. Mangiando della verdura fresca si pensava di assorbire l'energia della primavera e di garantirsi un futuro prospero: i soldi non sarebbero mancati nemmeno a chi avesse mangiato lenticchie o miglio. Il burro preparato di giovedì Santo guariva le ferite, il miele preservava dal morso di vipere e cani rabbiosi. Le uova deposte in questo giorno, inoltre, se sotterrate assicuravano fortuna alla casa e ai campi.
Per quel che riguarda il venerdì Santo, chi al mattino mangiava una mela a digiuno non avrebbe mai più sofferto la fame; cucinare e mangiare ciambelle, rigorosamente salate, teneva invece lontana la febbre. Fare il bagno prima dell'alba guariva le lesioni cutanee; le scarpe lucidate il venerdì Santo avrebbero reso il loro possessore immune dai morsi delle vipere, e i vestiti messi al sole in questo giorno non avrebbero sofferto per le tarme. A chi andava dal barbiere, i capelli sarebbero ricresciuti più forti (ma attenzione, secondo un'altra tradizione chi si fosse tagliato barba e capelli rischiava di vederli cadere per sempre). Tagliando un germoglio di tiglio a mezzogiorno e mescolandolo alla pappa del bambino lo si sarebbe salvaguardato dal mal di denti; le erbe medicinali avevano maggior efficacia terapeutica.
Attenzione però a non mangiar carne, se non si voleva che le proprie mani si coprissero di verruche; inoltre, chi beveva il venerdì Santo avrebbe sofferto la sete per tutto l'anno e chi indossava un abito tagliato o aggiustato in tale data sarebbe caduto in acqua. Portava sfortuna anche nascere in questo giorno, si diceva infatti che i nati di venerdì Santo non vivessero a lungo, nonché uccidere animali: il divieto si estendeva persino alle mosche. Scarsa riuscita avrebbero avuto anche i lavori, i viaggi, i matrimoni e ogni altra iniziativa di qualche importanza.
Indossare un vestito nuovo il giorno di Pasqua (o la domenica delle Palme) porta fortuna; se piove a Pasqua, pioverà anche per le sei domeniche successive. Il ramoscello pasquale di salice, ginepro, rovere o nocciolo è di buon auspicio e simboleggia l'arrivo della bella stagione. Si credeva di prevenire la malaria mangiando le prime tre violette trovate la mattina di Pasqua, mentre all'acqua attinta contro corrente da fiumi e ruscelli prima del levar dal sole si attribuivano virtù magiche: era nota infatti come 'acqua di Pasqua' e spruzzata per tutta la casa teneva lontani parassiti, formiche e spiriti malevoli. Chi nella notte di Pasqua dissotterrava una radice di gladiolo e, dopo averla seccata, la portava a contatto con la pelle nuda, sarebbe divenuto invulnerabile, mentre a chi, nella stessa notte, si fosse avventurato sulla strada per il cimitero sarebbe apparso il diavolo nei panni di un cacciatore, portando doni d'ogni genere.
Infine, erano ritenuti in grado di vedere gli spiriti tutti i bambini nati la domenica in Albis o nella notte di San Matteo (24 febbraio).

La Pasqua a Roma
Il regalo del "maritozzo" e la colazione del sabato Santo: cibi, usanze e tradizioni della capitale nel periodo a cavallo tra la Quaresima e Le Palme
A Roma, in tempo di quaresima, si mangiava rigorosamente di magro, con ceci e baccalà. Il primo venerdì di marzo, però, usanza voleva che gl'innamorati regalassero alle fidanzate il "maritozzo", un pane dolce, in genere a forma di rombo, arricchito con uva passa, anice, canditi e pinoli, che era trenta o quaranta volte più grande rispetto a quelli che si cuocevano di solito e a volte aveva l'aspetto di un cuore (in altri casi, il promesso sposo faceva inserire come decorazione due cuori di zucchero o dei fiori; spesso nell'impasto si nascondeva un anello). La tradizione rivive negli stornelli dell'epoca, con le ragazze che cantano: "Oggi ch'è il primo venerdì de marzo / Se va a San Pietro a pijà er maritozzo / Che ce lo pagherà er nostro regazzo" e il fornaio che, impastando i dolci, riassume: "Er primo è pe' li presciolosi / Er secondo è pe' li sposi / Er terzo è pe' l'innamorati / Er quarto è pe' li disperati".
Il sabato Santo si faceva colazione con uova sode, salame e pizza alta lievitata: tutti i cibi erano benedetti dal prete. Sulla tavola di Pasqua non potevano mancare i dolci di cioccolata e l'agnello, tagliato a pezzi, rosolato e cotto in casseruola a fuoco lento con l'aggiunta di qualche uovo, battuto e fatto rapprendere fino a formare una sottile crosta dorata. Le ricette a base di agnello abbondavano comunque in tutto il Lazio, terra di contadini e pastori, e non solo nel periodo pasquale: da quello "brodettato", cotto in tegame con prosciutto crudo, vino bianco e una salsa fatta di tuorli d'uovo, prezzemolo, maggiorana e succo di limone, a quello alla cacciatora, con le acciughe e senza il pomodoro. Nelle campagne laziali è diffusa la cosiddetta "pizza ricresciuta" di Pasqua, fatta lavorando una seconda volta la pasta di pane già lievitata e incorporando farina e uova: al posto del pecorino grattugiato, però, si aggiunge la ricotta, insaporita con un goccio di mistrà, la scorza di un limone e un pizzico di cannella.

Per la rubrica Folklore - Numero 80 aprile 2009